Ho avuto il piacere di parlare con Massimo Canevacci, accademico, etnografo e antropologo. Mi ha raccontato il suo lavoro, le sue esperienze in Brasile e le lotte delle popolazioni indigene. La sua testimonianza e la lucida analisi che ne viene fuori possono aiutarci a dare un contesto a ciò che sta accadendo in questi giorni nel Paese di Bolsonaro, situazione che cercheremo di raccontarvi con l’intera programmazione di oggi.
Professore, in un articolo recente mi sono concentrata sul concetto di sapere indigeno e su come venga costantemente posto in secondo piano rispetto a quello occidentale. Lei è un vero e proprio esperto in materia, cosa ci può dire su questo tema?
«Le culture indigene sono in primo luogo altamente diversificate. Non vorrei fare un discorso generalista: la mia ricerca empirica si è concentrata su due culture del Brasile, quelle Xavante e Bororo, e, in particolare, sulla loro cosmologia. La cosmologia è filosofia, se vogliamo. Molto frequentemente si pensa che la filosofia appartenga solamente alla tradizione europea, occidentale, dalla Grecia in poi. E così la cosmologia: il nostro pensiero subito corre a Esiodo o Omero, alla tradizione classica. In realtà, la cosmologia, così come la filosofia, è presentissima in queste culture. Anzi, direi che è fondamentale. La cosmologia è un intreccio tra ciò che noi chiamiamo il sacro e un modello culturale di visione del mondo. Non si esaurisce con la religione, ma è molto più complessa: è mitologia, conoscenza, un modo di essere al mondo. Queste dimensioni cosmologiche hanno favorito nei secoli delle relazioni particolari tra gli esseri umani, e anche con le piante, con le rocce e con ciò che chiamiamo divinità. È successo che la penetrazione violenta, il colonialismo, ha cominciato ad attaccare queste culture, che sono sopravvissute ma sono state in parte costrette a entrare all’interno degli schemi ideologici e religiosi occidentali».
Come viene vissuta la cosmologia in queste comunità?
«Queste dimensioni si concretizzano in dei rituali determinati dalle scansioni della vita quotidiana. Nella cultura Bororo i due momenti fondamentali sono la nascita e la morte. Conosco abbastanza bene i rituali che si sviluppano in questi due livelli. In principio, la nascita del bambino. Per l’occasione, si raggruppano tutti i bambini di una certa classe di età, da 1 a 3-4 anni (il rituale non è singolo), i quali vengono completamente impiumati: vengono cosparsi con della resina che viene presa dagli alberi per incollare queste piume e dipinti con alcuni colori. Si usano l’Urucum, che è una pianta da cui si estrae un colore rosso vivo, e il nero, e con le dita si viene a creare un grafismo particolarmente elegante. Questi bambini vengono poi assegnati a un padrino – o, meglio, ciò che noi chiameremmo un padrino – che appartiene a un clan diverso da quello dei genitori. Il padrino prima deve suonare una specie di flauto, poi muove alcuni passi verso il bambino. Quando arriva, poggia il flauto, prende il bambino e lo solleva. In quel momento, il piccolo diventa una sorta di incarnazione del mito cosmologico che si rinnova: ognuno diventa un arara, un piccolo arara, vale a dire un pappagallo, l’animale che tra i Bororo è fondativo di una complessa ritualità religiosa e cosmologica».
Si arriva poi direttamente al rituale funebre?
«No: quando il bambino diventa ragazzo, quindi intorno ai 12-13 anni, si fa un secondo rituale di iniziazione, legato alla sessualità. Tutti questi ragazzi, sempre in una fascia di età elastica – il tempo non è segnato dalla precisione cronologica dell’Occidente – vengono richiamati per l’iniziazione sessuale. Tutti in fila, vengono dipinti e impiumati e poi il loro padrino gli abbassa i calzoni, tira fuori il pene e lo avvolge con delle foglie, che ne creano una sorta di prolungamento. Da un punto di vista simbolico, questa affermazione della sessualità degli adolescenti testimonia che la vita nel villaggio continua e che la fecondazione per fortuna potrà ancora avvenire. L’astuccio penico (così si chiama in antropologia) ha però anche una funzione protettiva da eventuali infezioni. È talvolta molto divertente vedere questi bambini che strillano, gridano come se l’inserimento dell’astuccio sul loro piccolo pene fosse una cosa molto dolorosa. Credo che molto spesso derivi semplicemente dalla tensione per il rituale, dato che alcuni sono completamente tranquilli mentre altri gridano come se venissero castrati. L’astuccio in passato restava a lungo, mentre oggi viene mantenuto solo per il tempo dell’iniziazione. C’è stata tutta una serie di cambiamenti, non tanto della cosmologia quanto del vestiario e del rapporto con gli altri. Il rapporto con le ragazze è cambiato e, tra l’altro, attualmente i ragazzi usano dei calzoncini di jeans, dunque sarebbe impossibile mantenerlo. Lo stile di vita è cambiato assieme alla tradizione. Come cambiano in Occidente le tradizioni nel vestire, così cambiano quelle dei Bororo e degli Xavante».
Questo cambiamento nel vestiario è stato libero o imposto?
«Questi rituali a lungo sono stati quasi soppressi, combattuti, attaccati, eliminati. Questo a causa della presenza dei missionari, specialmente dei missionari salesiani, che hanno cercato non solamente di evangelizzare i bambini, i ragazzi, gli adulti e le ragazze, ma anche di vestirli secondo i canoni dell’Occidente. Ci sono delle immagini risalenti alla fine del 1800, ma anche agli anni Quaranta e Sessanta, che ritraggono ragazzini Xavante e Bororo già vestiti all’occidentale. Si vede che soffrono, stanno chiusi, si sentono non solamente minacciati ma imprigionati in una dimensione che non è la loro. Questa imposizione non si è limitata al vestiario, ma ovviamente anche alla religione. La conversione è stata forzata, anche tramite penetrazione di danaro, e ha causato – diciamo così – un parziale abbandono della visione del mondo indigena, della loro religione, del loro sacro. Molte comunità sono state assorbite dal cattolicesimo romano o a volte, ancora peggio, dai protestanti, dagli evangelici, che attualmente sono una potenza: non solo governano il Brasile, in Parlamento, ma hanno dei grossi finanziamenti per convincere queste persone ad abbandonare le loro credenze, le loro “superstizioni” (come le chiamano), per abbracciare il cristianesimo».
E questa evangelizzazione forzata non è mai stata bloccata?
«Non si è bloccata, anzi, i missionari hanno spesso bruciato le capanne in cui avvenivano questi rituali. Anche il funerale Bororo, quello al quale ho partecipato vivendo una delle esperienze più drammatiche e forti della mia vita intera, è stato a lungo contrastato dai missionari. Nello stesso tempo, però, c’è una furbizia delle culture indigene che hanno cercato sempre di mantenere i loro rituali, nascondendoli alla potenza dei salesiani e degli evangelici, e alla penetrazione dei fazendeiros, che sono dei potentissimi proprietari terrieri, latifondisti. Questa ha portato una serie di complesse trasformazioni. Negli anni Sessanta e Settanta, però, i missionari sono cambiati, c’è stata una presenza dei teologi della liberazione, cattolici che non imponevano la conversione, ma attestavano solamente la presenza della loro divinità. Poi c’è una vita quotidiana assieme agli altri. Questo è importantissimo perché ha segnato una svolta radicale su cosa si intende per evangelizzare, non nell’accezione violenta dei conquistatori, del potere coloniale, ma in un’accezione pacifica. La questione della religione non è solamente religione per gli indigeni, ma coinvolge i rituali, la vita quotidiana, le relazioni tra gli uomini e le donne».
E questi teologi della liberazione sono ancora presenti in Brasile?
«Infelicemente, i teologi della liberazione sono stati distrutti da Ratzinger quando era segretario della propaganda Fide. La Chiesa ha stroncato i teologi della liberazione dicendo che o facevano l’evangelizzazione o sarebbero stati scomunicati. Questo ha portato una catastrofe perché purtroppo i teologi sono stati costretti ad abbandonare il loro intervento, non solo nelle comunità indigene, ma anche nelle favelas, dove erano molto presenti. E che è successo? È successo che nelle favelas, nelle grandi periferie delle città brasiliane, sono penetrati sempre di più gli evangelici, che le hanno in pugno. Anche nei contesti indigeni sono rimasti solamente i salesiani e gli evangelici. È stato un grosso problema che ho potuto sperimentare personalmente quando verso la metà degli anni Novanta ero lì, di fronte a questo processo politico-religioso gravissimo. Nello stesso tempo, alcune persone cercano di riprendere con forza il potere della loro cosmologia, riaffermando la propria visione del mondo».
C’è quindi una speranza per le popolazioni indigene di riprendere in mano la loro cultura, la cosmologia, e la maniera in cui vengono rappresentate?
«Il problema fondamentale è stato, appunto, quello della rappresentazione. Perché nelle culture indigene, la loro è sempre stata un’etero-rappresentazione, sono sempre stati gli antropologi, i giornalisti, i missionari, i politici a entrare nei contesti indigeni e a rappresentare poi quello che credevano fossero le loro visioni del mondo. Vi era una subordinazione passiva di queste persone indigene che dovevano essere solamente rappresentate, raccontate, descritte. Che è successo poi? È successo che a partire dal nuovo secolo c’è stata una grandissima trasformazione con la penetrazione della cultura digitale anche in queste comunità. Computer, iPhone, tablet: tutti questi strumenti vengono usati totalmente dai giovani, dagli adulti, molto meno dagli anziani, il che ha significato cosa: l’auto-rappresentazione. Cioè: quando io sono andato a fare la ricerca del funerale Bororo, la prima volta, c’era già Pauliño, che sapeva benissimo usare la videocamera. Lui filmava, lui rappresentava e lui interrogava, lui creava una relazione dialogica con le persone coinvolte nel funerale. Quindi, è cominciato il processo di auto-rappresentazione, che è importantissimo, perché mette in discussione il potere dell’Occidente, che pensava di avere l’esclusività della rappresentazione dell’altro. Invece, l’altro si rappresenta, e non solo, ma rappresenta anche l’occidentale, rappresenta ad esempio me che sto là, rappresenta il missionario, rappresenta il giornalista».
Una riappropriazione delle loro narrazioni.
«Esatto. Le narrazioni delle culture indigene prima erano sviluppate a livello orale, a livello del grafismo e dei canti. Le storie venivano raccontate a voce, i canti erano cantati e poi il grafismo simboleggiava le storie. Attualmente, invece, gli stessi indigeni si rappresentano. Il più grande antropologo attuale secondo me si chiama Divino, è uno Xavante. Divino ha una grandissima capacità di filmare i rituali, non solamente Xavante, ma anche di altre culture indigene. Lo conosco personalmente, è una persona veramente straordinaria, con una capacità non solo di filmare, ma anche di fare il montaggio. Come sappiamo bene, la comunicazione visuale non si basa solo sulla tecnica del filmare, che tutti son capaci, ma di centrare il montaggio. Montare e ridurre in mezz’ora o in un’ora un rituale che può durare giorni e giorni. Lui è bravissimo, e dentro una capanna del villaggio di Sangradouro ha una centrale di montaggio. Cosa che a me colpì tantissimo e mi riempì di felicità. Dava un senso a tutto questo grande cambiamento».
Vedo spesso che in tanti vorrebbero gli indigeni fermi alla preistoria, lontani dal progresso, invece gli strumenti digitali possono rappresentare un momento di presa di potere.
«Bravissima. È molto importante ciò che stai dicendo, perché in Italia, appena sono tornato dai miei viaggi (all’epoca insegnavo a La Sapienza), sia tra gli insegnanti sia tra gli studenti, la domanda immediata, la prima era: “Ah, ma così loro non sono più quelli di una volta?”. Ho sempre cercato con la massima calma di spiegare che il cambiamento culturale avviene tra di noi, avviene nelle campagne italiane e avviene anche nei contesti indigeni. Il problema è come avviene. Chi gestisce questo cambiamento. Il cambiamento è parte della storia di qualsiasi gruppo umano e questa visione che gli indigeni dovrebbero stare in una sorta di museo vivente, sempre identici a se stessi, per essere fotografati per il piacere occidentale di dire “ah quanto sono belli”, tipo giardino zoologico, è una concezione razzista ed eurocentrica. I processi di cambiamento, specialmente il cambiamento della comunicazione digitale, vanno appoggiati (sempre considerando chi è il soggetto che usa questa comunicazione e come la usa). Nella mia esperienza con gli Xavante, i Bororo, i Carajá, il tutto è stato molto, molto positivo. D’altronde, sarebbe assurdo impedire di usare strumenti digitali a uno Xavante o a un Bororo che ormai non vive più solo nel suo villaggio, ma esce, va nelle cittadine vicine, si droga. Anche la droga, purtroppo, è entrata all’interno di queste culture e, certo, fa parte di un modello che investe tutte le esperienze di vita di qualsiasi persona. Questo va capito: l’auto-rappresentazione è stata centrale per affermare un’autonomia politica e cosmologica di queste popolazioni. E speriamo che possa continuare in questa direzione».
Gli strumenti digitali quindi vengono utilizzati anche politicamente?
«Attualmente, ci sono delle grandissime manifestazioni a Brasilia perché l’infame governo Bolsonaro ha proposto un decreto legge (il PL 490) per il quale i fazendeiros possono entrare dentro le riserve indigene a coltivare la soia, un oro verde che produce tantissima ricchezza. Ma rompere, distruggere i limiti dell’autonomia delle riserve, è gravissimo. Il 7 settembre, oggi, per la festa dell’indipendenza del Brasile, moltissime persone, specialmente donne, andranno a Brasilia per protestare contro questo disgraziato, sciagurato, autoritario progetto di legge. Due miei amici, uno Bororo e uno Xavante, mi hanno mandato delle immagini drammatiche di manifestazioni che già sono in corso. L’intervista capita in un momento fondamentale. Già da giorni la protesta si sta affermando, ma oggi avrà una centralità femminile. Bisogna dare una risonanza alla questione perché è un momento che riguarda la libertà di tutti noi. Se si infrange la libertà delle popolazioni indigene e brasiliane, Bororo, Xavante, Kayapó, non è soltanto la loro libertà che il governo Bolsonaro attacca, o quella dell’Amazzonia, è una libertà universale, anche la nostra. Io sento che la mia libertà è attaccata da questi progetti gravissimi, invasivi, disgraziati e di infame tradizione coloniale secondo la quale i selvaggi, i primitivi, devono accettare le regole del mercato, della soia e del bestiame. Questo sta producendo un conflitto fortissimo, a tanti livelli. Ormai, ho decine di video realizzati da persone Xavante e Bororo che hanno filmato con i telefonini le loro manifestazioni. La mia speranza è che la comunicazione politica basata sull’auto-rappresentazione delle culture indigene possa favorire la liberazione da questo attacco del governo Bolsonaro, per rivendicare il fatto che le loro terre non devono essere toccate. L’invasione delle terre indigene significherebbe un atto di terrorismo della politica del governo Bolsonaro».
Prossimamente, uscirà un diario delle Sue esperienze con le comunità indigene del Brasile. So che la Sua sfida è quella di mescolare elementi di auto-rappresentazione con le descrizioni della Sua esperienza. Anche questo sarà un atto politico?
«Dico sinceramente che la pubblicazione di questo libro con un’ottima casa editrice mi riempie di felicità, se posso dire anche di orgoglio, perché in questo momento il libro potrebbe rappresentare non solamente le storie delle culture indigene, ma anche la rivendicazione di questa politica comunicazionale per affrontare l’invasione. È importante oggi ripensare il rapporto dell’Occidente con le culture indigene brasiliane e non solo. Siamo ancora fortemente influenzati da una tradizione neocoloniale, legata all’orientalismo (che Edward Said ha elaborato rispetto a come l’Occidente immagina l’Oriente) e all’indigenismo. L’Occidente ha creato l’immagine dell’indigeno, che dovrebbe restare immutabile per essere fotografato da Geo & Geo (adesso sono un po’ cattivo) o da National Geographic. Sarà veramente un grande piacere pubblicare questo libro e non vedo l’ora che esca e che possa contribuire a questa sfida alla quale ci troviamo di fronte».