Ero l’Arminuta, la ritornata. Parlavo un’altra lingua e non sapevo più a chi appartenere. La parola mamma si era annidata nella mia gola come un rospo. Oggi davvero ignoro che luogo sia una madre. Mi manca come può mancare la salute, un riparo, una certezza.
Basterebbero queste poche e semplici parole per delineare la secca e profonda prosa di Donatella Di Pietrantonio, espressa nelle righe più celebri del suo ultimo romanzo, L’Arminuta.
Il lettore ha dinanzi a sé una storia minuta. Una ragazzina di tredici anni scopre, improvvisamente, di non essere la figlia naturale dei propri genitori e di non poter più rimanere con loro. Sarà, quindi, costretta a lasciare la città in cui ricorda di aver sempre vissuto e a tornare dalla propria famiglia originaria, in un piccolo paese dell’Abruzzo. La sua quotidianità rivela, in questo modo, di avere tra le proprie fondamenta una profonda menzogna. Tuttò ciò che ella credeva fosse proprio del suo mondo – gli agi, la spiaggia dinanzi casa, i suoi stessi genitori – in realtà, non erano che una verità temporanea.
Assistiamo così, pagina dopo pagina, al profondo imbarazzo della nostra piccola protagonista di fronte alla visione della sua antica – e contemporaneamente nuova – famiglia. Le stanze sporche, i numerosi fratelli e le faccende domestiche, così lontani dalle lezioni di ballo e dalle estati al mare, irrompono fulminee nella sua vita, lasciandole un forte senso di straniamento e di solitudine. A lenire il dolore incessante dell’abbandono e della perdita, ci saranno unicamente la tenera presenza della sorellina Adriana, una pragmatica e saggia bambina di dieci anni, e le ambigue e dolci attenzioni di Vincenzo, il primogenito.
Mia sorella. Come un fiore improbabile, cresciuto su un piccolo grumo di terra attaccato alla roccia. Da lei ho appreso la resistenza.
Vincenzo usciva stanco dall’acqua, come un dio rozzo e selvatico sceso al mare per un unico giorno. Se ricordo il suo passo fiacco, la distesa azzurra era rimasta fecondata.
Attraverso l’uso sapiente di una scrittura minuziosa e sottile, così simile a quella della celebre scrittrice ungherese Ágota Kristóf, l’autrice genera piccoli varchi di luce che irretiscono il lettore. Le descrizioni esili dei personaggi, incredibilmente reali e – per questo – così raggiungibili dallo sguardo esterno di chi legge, si alternano alle narrazioni di un universo povero e sanguigno, composto da gesti semplici e situazioni non consuete.
Ripetevo piano la parola mamma cento volte, finché perdeva ogni senso ed era solo una ginnastica delle labbra. Restavo orfana di due madri viventi. Una mi aveva ceduta con il suo latte ancora sulla lingua, l’altra mi aveva restituita a tredici anni. Ero figlia di separazioni, parentele false o taciute, distanze. Non sapevo più da chi provenivo. In fondo non lo so neanche adesso.
Il viaggio di scoperta di sé dell’Arminuta incontrerà sapienti e autentiche rivelazioni tra le lenzuola bagnate d’urina di un letto condiviso, nel dialetto di un luogo straniero, tra le bugie di una madre estranea, nelle filigrane di un destino che compie giri imprevedibili, ma pieni di umanità e tenerezza. Un piccolo e meraviglioso scorcio letterario, di rara e sentita autenticità. In una tale eco di dolore e solitudine, pare quasi di riuscire a sentire il riverbero delle nostre incertezze e dei nostri rimpianti. Prezioso.