“Immota manet”. Così è scritto sul gonfalone della città. “L’Aquila resta ferma, immobile”. Almeno questo avviene nello spirito della sua gente, riservata e dignitosa anche di fronte al disastro che la colpisce. Da secoli questa la sua indole, aliena dall’ostentazione del dolore, intima nell’elaborazione dei propri lutti. Invece non sono rimasti fermi palazzi e monumenti, case e chiese, alle scosse del serpe che il 6 aprile si è agitato terribilmente nel suo ventre, che si agita ancora. Quella notte del 6 aprile, nel cuore d’una notte stellata e chiara di luna, L’Aquila ed i meravigliosi borghi del suo circondario sono stati squassati dal terremoto per lunghissimi, interminabili secondi, oltre venti. L’ho vissuta l’esperienza, meglio non descriverla. Mi resta nel profondo la sensazione dei primi minuti, delle prime ore della sopravvivenza. Mi si è impressa nella mente l’atmosfera irreale, sospesa, allucinata, che aleggiava sulle case distrutte nel centro storico della mia Paganica, un bel paese di oltre cinquemila abitanti a 9 km da L’Aquila. Lì sono nato e vivo. L’hanno indicato subito come l’epicentro del sisma. Abito in periferia. La mia casa è stata costruita trent’anni fa, in cemento armato. È davvero strano che la tua casa, per antonomasia rifugio che ti dà sicurezza, d’improvviso diventi una minaccia. Ti si sovverte il mondo, la vita. Dopo la scossa delle 3 e 32, la corrente elettrica mancata, guadagnata l’uscita calpestando oggetti e stoviglie rotte, con i miei di famiglia siamo andati subito via da casa, per luoghi più aperti. Abbiamo transitato accanto al centro antico di Paganica. La settecentesca chiesa della Concezione con la facciata in bilico, squarciata, in parte crollata, ha fatto il giro del mondo, in quello stato. Lì vicino la parrocchiale di Santa Maria Assunta, impianto duecentesco riadattato nel Seicento, dall’esterno non sembra aver avuto grossi traumi, ma sarà solo un’impressione. Contrastano con il cielo, d’un colore livido, il profilo delle case e la fuga scomposta dei tetti che s’inerpicano verso il Colle, quartiere alto dove imponente domina la chiesa di Santa Maria del Presepe costruita sul sito del castello distrutto nel 1424 nella guerra del L’Aquila che sconfisse Fortebraccio da Montone. […]
Fu questo fu l’incipit del lungo racconto che scrissi all’indomani del terremoto del 6 aprile 2009, una testimonianza raccolta da molte testate della stampa italiana all’estero. Dieci anni sono passati da allora. Oggi è il giorno del ricordo di quella notte sconvolgente, quando il movimento tellurico squassò L’Aquila e 55 altri Comuni, sconvolgendo le vite delle popolazioni del cratere sismico. La città capoluogo d’Abruzzo fu lacerata, paralizzata nei suoi servizi, mutilata e ferita nel suo straordinario patrimonio d’arte e d’architetture, uno dei centri storici più preziosi e vasti d’Italia. 309 le vittime. Di loro faremo sempre memoria. A loro va il nostro raccoglimento, la nostra preghiera muta, rispettosa dei familiari rimasti con la lacerazione perenne del cuore.
In questo primo decennale molti saranno i bilanci, le analisi, i giudizi. Sulle condizioni de L’Aquila, sullo stato della ricostruzione materiale e sociale, sugli obiettivi raggiunti, su quelli ancora lontani, sui ritardi, sui problemi, sulle criticità. Com’è comprensibile, molte saranno le voci che giudicheranno questi dieci anni, tanti i servizi giornalistici e gli speciali televisivi, le testimonianze, gli approfondimenti scientifici sui terremoti e sulla prevenzione sismica. Le analisi certamente riferiranno sui risultati finora raggiunti nella ricostruzione del capoluogo abruzzese e degli altri centri, sulle innovazioni ardite e sulle tecniche d’avanguardia che stanno restituendo una città sicura – caso di studio per molte università italiane e straniere –, tra le più sicure d’Europa. E tra le più belle città d’arte, diventata sin da quel 6 aprile di dieci anni fa patrimonio del mondo, come universale è il messaggio di pace e di perdono che da otto secoli essa custodisce nel dono della Perdonanza, il primo giubileo della cristianità, e nell’eccezionale magistero di Papa Celestino V.
Ma l’attenzione dei media si concentrerà soprattutto sugli errori, sui ritardi e sulle occasioni mancate nei dieci anni trascorsi dal quel tragico 6 aprile del 2009. È giusto che sia così. Ho grande rispetto e gratitudine per questa attenzione scrupolosa verso la nostra città. Aiuta a tenere accesa una luce su ogni aspetto della nostra rinascita. Molte le analisi già svolte in questi giorni, alcune rigorose, altre meno per il retaggio di consumati stereotipi, sovente lontani dalla realtà. Mi asterrò, in questa circostanza, da valutazioni e da personali giudizi nei confronti dei governi che si sono succeduti e delle amministrazioni che hanno guidato la Regione, gli enti locali e in particolare la città capoluogo. Ho avuto l’onore di servire L’Aquila per quasi un trentennio, nelle funzioni di consigliere, assessore e vicesindaco, fino al 2007. So quanto peso gravi sulle spalle di ogni amministratore civico che con serietà e coscienza si mette al servizio della propria comunità. Figurarsi quale sia la responsabilità e l’immane onere di doverlo fare in situazioni tragiche ed eccezionali, dopo un terremoto come quello del 2009, i cui precedenti similari per gravità, nella storia della città che tanti ne ha subiti, furono quelli del 1703, 1461 e 1349.
Vorrei invece tornare oggi con il pensiero, quantunque nella tristezza degli eventi di cui facciamo memoria – le cui immagini restano nitide come fossero di qualche giorno fa –, non solo al ricordo del dolore di quei giorni tremendi, ma anche dell’affetto immenso che ci circondò. Non possiamo non rammentare, con profonda gratitudine, l’abnegazione, la solidarietà, l’impegno straordinario e generoso dei Vigili del Fuoco e delle decine di migliaia di volontari giunti da ogni parte di Italia, organizzati nelle associazioni che resteranno per sempre nel nostro cuore (Alpini dell’ANA, Croce Rossa, Protezione Civile delle varie regioni italiane, Misericordie, Caritas, e tante altre ancora), delle Forze dell’Ordine (Carabinieri, Polizia di Stato, Guardia di Finanza), dell’Esercito. Una gara di affettuosa premura verso la popolazione de L’Aquila e dei borghi colpiti dal sisma.
Non potremo mai dimenticare questa che è stata una pagina splendida, l’immagine della più bella Italia, quella del volontariato e della solidarietà. Come pure non dimenticheremo mai l’amore e la solidarietà di tutti gli italiani nel mondo – in particolare degli abruzzesi e delle loro associazioni –, espresse con innumerevoli gesti di grande valore morale e di significativa generosità. In questi anni, visitando le nostre comunità all’estero nelle Americhe, in Australia, in Africa e in tutta Europa, il mio primo e preminente pensiero è stato sempre quello di ringraziare tutti i nostri connazionali dal profondo del cuore, come semplice cittadino ma anche a nome dell’intera comunità aquilana (quando si è stati amministratori civici lo si rimane moralmente per sempre). Li ho ringraziati per l’affetto, la vicinanza, la tenerezza profonda dei gesti d’aiuto e di solidarietà nei giorni e nei mesi del dopo terremoto. Tantissimi italiani sono venuti a soccorrerci. Un numero impressionante a trovarci nei mesi e negli anni successivi al sisma. Tanti ci hanno poi accolti e ospitati, per qualche giorno di serenità, dal Trentino alla Sicilia, dal Piemonte alla Puglia, dalla Lombardia alla Sardegna, dal Friuli alla Calabria. Un’Italia premurosa e materna, fortemente unita nei suoi abitanti dalle Alpi fino a Lampedusa. In ogni dove sempre con il cuore aperto, come aperto e generoso è sempre il cuore dell’Italia in occasione delle calamità che ci colpiscono, esaltando in ciascuno il senso della comunità nazionale e della fratellanza. Serve ricordare queste fatti, sono davvero educativi per i tempi complicati che stiamo ora vivendo, quando sembrano affermarsi i messaggi più beceri, egoisti e lontani dalla nostra umanità.
Vorrei anche qui ricordare l’attenzione di tanti Paesi del mondo di fronte alla nostra tragedia, alcuni dei quali ebbero occasione di verificare direttamente le lacerazioni inferte dal sisma al patrimonio architettonico e artistico de L’Aquila nel luglio del 2009, quando la città ospitò i Capi di Stato e di governo nelle riunioni del G8 e del G20. Alcuni degli Stati più potenti s’impegnarono meritoriamente a restaurare dei monumenti, altri hanno generosamente contribuito con donazioni a Comuni, università e ospedali, per costruire opere di pubblica utilità o ricostruire importanti emergenze architettoniche. Qualche nazione non ha dato seguito alla promessa solennemente assunta. Orbene, grazie alle risorse assicurate dal governo nel 2013 con un impegno pluriennale, i centri colpiti dal terremoto stanno risorgendo dalle macerie, la ricostruzione sta andando avanti. L’Aquila tornerà più bella di prima.
In questi anni difficili la comunità aquilana ha dato un grande esempio di dignità e di resilienza. Come nei secoli passati, dopo gli altri terremoti, anche questa volta ce la faremo. Nella tragedia è emersa la parte migliore della nostra gente, l’indole forte e tenace. Ma non possiamo tuttavia nasconderci che ha messo in luce, in una ridotta minoranza, anche i lati peggiori del comportamento umano, piccole e grandi miserie morali. C’è pure da registrare che sul cantiere più grande d’Europa, come è stato definito, hanno girato e girano anche altri interessi poco chiari, che tuttavia magistratura e reparti dedicati della polizia giudiziaria, con un assiduo efficace e penetrante controllo, vanno man mano scoprendo, inquisendo i sospettati, rinviando a giudizio e condannando i responsabili dei reati. Fenomeni contenuti, però, rispetto alla dimensione economica della ricostruzione. Non aggiungo altre considerazioni su questa parte un po’ squallida delle vicende legate alla gestione dell’emergenza post-sismica e alla ricostruzione.
Un pensiero ancora sento di esprimere sulla ricostruzione morale, sulla rinascita di un nuovo senso della comunità degli aquilani. La ricostruzione materiale è in corso, andrà comunque avanti con tempi più o meno soddisfacenti. Ma la cura che più ci preme riguarda quella morale delle lacerazioni interiori delle persone, poco o per nulla apparenti, conseguenti al terremoto. Tralasciamo riferimenti più puntuali a studi scientifici e sociali, che pure in questi anni sono stati prodotti. Mi sembrano illuminanti al caso alcuni spunti che traggo dal messaggio per il decennale dell’arcivescovo de L’Aquila, Cardinale Giuseppe Petrocchi, uscito sulla stampa.
Inizia con queste parole l’intenso: «Per la decima volta, quest’anno, sentiremo i rintocchi della campana che ricordano i 309 martiri del terremoto. Facciamo memoria di tutte le vittime di quella immane tragedia; le stringiamo a noi con un unico abbraccio e, al tempo stesso, le chiamiamo per nome: una ad una. La notte crocifissa del sisma ha suscitato lunghi giorni di dolore, ma anche ha acceso la luce di una graduale risurrezione, più forte della furia devastante del sisma. Le lacrime versate si sono rivelate feconde, e hanno generato una abbondante fioritura di fraternità e solidarietà. La ricorrenza – che celebriamo con raccoglimento e volontà di ricostruzione integrale – ci obbliga a fare, insieme, una seria revisione. Per questo, non parlerei di terremoto, ma di terremoti, non solo perché abbiamo avuto nuove repliche telluriche (nel 2016 e 2017), ma anche perché il sisma è un evento complesso e multiforme, difficile da cogliere nella sua distruttiva globalità. Quando sono venuto a contatto con gli effetti demolitivi delle scosse, mi sono accorto che, accanto alle macerie visibili (materiali), c’erano pure quelle invisibili (spirituali); allora ho cominciato a parlare di terremoto dell’anima, che costituisce l’altra faccia (quella meno esplorata) della storia del sisma. […]».
Sarà questo l’impegno più arduo cui dover assolvere, pensando alla parte più fragile della nostra gente. E ancora l’altro rilevante impegno di pensare anzitutto al futuro delle nostre giovani generazioni, che nella città ricostruita e nel suo territorio debbono poter trovar modo d’esprimere il loro talento, in opportunità di lavoro e di costruzione di nuove famiglie. L’Aquila ricostruita nelle sue case, nei suoi palazzi, nei suoi monumenti, negli uffici e nelle fabbriche, dovrà riaccogliere la sua gente, che vi torna a vivere con la speranza di un futuro. Nel decimo anniversario del sisma, quindi, oltre alla gratitudine per la vicinanza affettuosa che abbiamo avvertito, vogliamo essere aperti alla speranza di futuro per la nostra comunità. Certo, augurandoci una più sollecita ricostruzione materiale, che sconta più d’un ritardo specie nella ricostruzione pubblica, ma soprattutto nella speranza operosa di una forte ricostruzione sociale e morale della nostra comunità. Una comunità che deve ritrovare il senso profondo del vivere insieme con i valori antichi del bene comune, quello che nei secoli ha fatto e mantenuto grande L’Aquila. Fraternità sociale, rispetto, impegno civico, etica delle responsabilità, cultura, creatività, attaccamento alla propria terra, amore per la propria storia e gratuita dedizione al bene comune sono i riferimenti per disegnare il nostro futuro, il futuro di una città nuova, non solo più bella di prima, ma anche migliore di prima.
Questo ricordo, con il forte senso di speranza e di futuro, è il modo migliore per ricordare le 309 vittime del terremoto de L’Aquila.
Contributo a cura di Goffredo Palmerini, giornalista e scrittore