Nel corpo, non meno che nel cervello, è racchiusa la storia della vita. – Edna O’ Brien Philip Roth
Il romanzo L’animale morente di Philip Roth, attraverso l’oscillazione fra venerazione e ossessione del possesso di un corpo e per un corpo, scompagina l’ordine delle emozioni e sensazioni umane, a volte divorandole, altre lasciandole divorare.
Philip Roth narra la storia del professore universitario David Kepesh e della sua forma d’amore irruente per un’alunna di trentotto anni più giovane, Consuela Castillo. David Kepesh è dentro questa storia, raccontata in prima persona, con fatica, sforzo e affanno.
Se divorare è un verbo fondamentalmente dedicato alle belve, quanto di bestiale vi è nell’essere umano? Fra la ferocia che pare derubare anche gli ultimi frammenti di umanità, il tatto umano, proprio perché è tatto e proprio perché è umano, dovrebbe cercare di trarre la possibilità di generare un moto gentile. Un punto focale del romanzo, si legge mentre l’uomo pare sia preda del bisogno primordiale di sbranare ed essere sbranato, mentre il sesso pare essere un ringhio, l’unica azione possibile e importante, una lotta, una sopraffazione, un conflitto senza alcuna tregua, è questo:
Il sesso è veramente brutale: e quest’uomo non è un bruto, ma conosce la brutalità.
Conoscere per riconoscere. Non essere un bruto protegge dalla brutalità? L’essere umano nasce davvero bruto o è solo capace di compiere brutalità? La brutalità è sempre una scelta? Cosa c’è oltre una scelta sbagliata? Molto probabilmente tanta vita masticata, sputata, perduta, maltrattata, inseguita, arresa. Fermarsi per affermarsi senza perdersi. Il professore si fermerà. Spezzerà questo rapporto ossessivo. E poi tornerà, richiamato da Consuela, quando a distanza di anni sarà gravemente malata.
Il ritorno non ha la forma di un oggetto contundente ma quella tenera di un cucchiaio volto a nutrire, senza l’ego oppresso che devitalizza il dare. O forse è un ritorno della consapevolezza.
Io credo che tu sia completo prima di cominciare. E l’amore ti spezza. Tu sei intero, e poi ti apri in due. O te ne sbarazzi o lo incorpori con un’autodistorsione.
Il ritorno della consapevolezza. La consapevolezza di poter ceder il passo. Di poter accettare autodistorsioni. La bellezza del cedere senza essere un cedimento con l’altra e per l’altra. Il valore di essere un cedimento, senza dover temere il vuoto che ne consegue. Di essere un cedimento in due.
Un gesto simbolo dell’intero romanzo di Roth è il professore che si accinge a bere il sangue mestruale di Consuela. Un gesto controverso. Il sangue si beve per affamarsi o per saziarsi? Ultimo rantolo di un animale morente o prima oasi di un deserto bruciante? Dopo aver letto L’animale morente, e subito dopo Il dolce domani di Russell Banks, provare a raccogliere per indagare le scorie umane è sembrato un tentativo necessario.
Le emorragie esterne si vedono, quelle interne no. Il sangue colare si vede. Sono le emorragie interne a uccidere più frequentemente. Se il sangue è forza vitale, la sua assenza appare come morte percepibile.
Il dolce domani è ispirato da un fatto realmente accaduto. Un autobus scolastico, a Sam Dent, un piccolo paese in Texas, una mattina apparentemente come tutte le altre, precipita in una scarpata. Per l’impatto, quattordici ragazzini perdono la vita. Una perde l’uso delle gambe.
Sul luogo dell’incidente non ci sarà mai nemmeno una goccia di sangue. La storia narrata nel romanzo è l’insieme di diverse storie. Così si scopre che un dramma collettivo è la somma di tanti drammi individuali. Leggere il dramma di ognuno, attraverso voci singolari, leggere i tanti drammi dentro uno solo, vuol dire non gelare di fronte alla vischiosità del sangue dell’altro. E quindi non inorridire dinanzi al proprio sangue. Ogni dramma anche individuale arriva dopo dolori centrifugati attimo dopo attimo. Dolori causa-effetto, o solo effetto, o solo causa, di impotenza, di abuso di potere, di non uso del potere. Di rifiuto del potere, anche. O di non riconoscersi e riconoscere di poter fare e, a volte, essere.
Ogni dolore minimo riacquisterà la riconoscenza e dignità dovuta. Ci sarà la voce del dolore dei genitori dei bambini morti. Sopravvissuti ai loro figli. La voce del dolore della conducente dell’autobus, sopravvissuta. La voce del dolore della ragazza che perde l’uso delle gambe e riacquista una nuova forma di libertà, una libertà davvero libera. E ci sarà la voce del dolore dell’avvocato che sceglierà di seguire il caso, il quale sta faticosamente barcollando cercando di sottrare sua figlia, tossicodipendente e probabilmente sieropositiva, alla morte. La giustizia è un ago o una sonda?
Ne Il dolce domani si cammina precariamente, senza pretendere stabilità, cercando di restare sul confine fra la vita salvata e la vita dispersa. Fra l’ago che inietta eroina e l’ago che, cortisonico, blocca reazioni immunitarie. Si cerca di essere ago per ristabilire equilibri e sonda per non condannare disequilibri.
I loro visi morti erano riusciti solo a chiudermi fuori da me stesso.
L’unico modo in cui potevo continuare a vivere era credere che non stavo vivendo.
Si parla di vita. Eppure è un libro sulla morte. La distanza fra la vita e la morte sembra inafferrabile e poi, di colpo, morte e vita, come uno schiaffo, come un pugno in pieno volto, o con un movimento impercettibile, si scontrano. Facendosi del bene e del male a vicenda. Non si può quantificare quanto bene e quanto male si scambino, ammesso che il vivere possa essere quantificato. Si vive, e ci si trova la morte davanti. Si muore, e ci si scontra con qualche residuo di vita.
Escludere il grossolano, maneggiare le cose fini, aiuta a far comprendere quanto anche un domani non dolce possa essere vivo. Credere di non star vivendo. E vivere malgrado questo è forse la misteriosa magia della vita stessa.
Perché non tutti i domani sono dolci. Ma anche i domani amari sono domani. Forse fra i domani amari e i domani dolci ci sono gli amari dolci domani. Russell Banks insegna, nella violenza, a non violentarli.