Nel 1986, sugli scaffali delle librerie di tutta Italia compariva L’altra verità. Diario di una diversa, il primo libro in prosa di Alda Merini. Un piccolo volume nel quale la poetessa narrava l’esperienza fatta durante la sua segregazione in un manicomio per ben dieci anni.
Già prima di questo lungo ricovero, Alda era entrata e uscita da diverse case di cura e aveva espresso attraverso le sue parole il disagio provato nella sua mente. Con quello che Giorgio Manganelli ha definito una ricognizione, per epifanie, deliri, nenie, canzoni, disvelamenti e apparizioni, di uno spazio – non un luogo – in cui, venendo meno ogni consuetudine e accortezza quotidiana, irrompe il naturale inferno e il naturale numinoso dell’essere umano, però, la scrittrice decise di fare un passo avanti, raccontando non solo un evento che l’aveva segnata profondamente, ma diventando anche la voce di milioni di persone che per anni avevano abitato quei luoghi orribili che erano stati i manicomi prima della loro chiusura con la Legge Basaglia nel 1978.
Concentrarsi sul come la scrittrice fosse finita in un ospedale psichiatrico e su quello che aveva provato durante la reclusione non avrebbe senso: molti hanno già parlato di questo, lei stessa aveva espresso il suo disagio e per capirne il dolore non c’è modo migliore che leggerlo nei suoi scritti. Tuttavia, è interessante esplorare come attraverso le sue parole la Merini sia riuscita a dare una lucida descrizione di quelle strutture, dove spesso più che la cura alla malattia si trovava la sorgente da cui ne nasceva una tutta nuova.
La poetessa, infatti, in maniera lucida è riuscita a rendere l’idea della facilità con cui in quel periodo era possibile interrare una persona, specialmente una donna: bastava un attacco isterico, una parola di troppo, una reazione sbagliata alla molestia di un uomo per essere considerata “pazza”. E anche se non lo si era, all’interno di quelle case di cura si rischiava seriamente di diventarlo, vuoi per le pessime condizioni igieniche, vuoi per la maniera disumana in cui dottori e infermieri trattavano i pazienti.
Nella serie TV Penny Dreadful, la protagonista Vanessa Ives definisce la camera in cui ha trascorso il suo soggiorno in una clinica mentale la white room where time stopped (la stanza bianca in cui il tempo si è fermato), per mettere in risalto quanto in quel luogo per lei il tempo fosse sospeso, quanto non riuscisse più a distinguere il giorno dalla notte e ogni ora fosse uguale all’altra. Alda Merini, in cambio, non ha usato la stessa denominazione per narrare il tedio che caratterizzava i momenti trascorsi in quei posti dove a padroneggiare era l’alienazione, ma le sue rappresentazioni sembrano avvicinarsi molto a ciò che nella serie TV viene mostrato attraverso scene che riprendono la donna subire i più vili trattamenti, gli stessi che aveva subito la letterata e che già la giornalista Elizabeth Cochran aveva anni prima descritto nel suo libro Ten Days in a Mad House.
Quello che l’autrice milanese è riuscita perfettamente a esprimere è cosa rappresentavano i manicomi all’epoca: dei luoghi in cui relegare qualsiasi elemento che potesse minare l’ordine apparente della società. Se il mondo esterno era l’armonia dell’apollineo, l’organismo del manicomio era invece il caos del dionisiaco, in cui gli esseri umani subivano una metamorfosi bestiale. Leggendo quanto Alda ha scritto di quelle malate perse in se stesse ci si figura davanti agli occhi quelle stanze oscure dalle pareti grigiastre, sembra di entrare direttamente nel quadro di Telemaco Signorini, La sala delle agitate (1865), in cui delle figure fantasmagoriche si stagliano su uno sfondo altrettanto spoglio.
Ma se la casa di cura rappresentava un universo a sé in cui concetti come quello di famiglia scompariva e quello d’amore mutava e magari diventava anche più puro, l’essere stato in quel luogo marchiava una persona a vita. Lasciato il limbo del manicomio, il mondo si trasformava in un vero e proprio inferno: una volta che si era stati matti lo si era per sempre, anche quando i medici ti reputavano guarito. I malati portavano un segno per cui diventavano degli inetti, disadattati che dovevano vivere nell’indifferenza: il vero inferno è fuori, qui a contatto con gli altri, che ti giudicano, ti criticano e non ti amano. Per questo Alda sentì il bisogno di raccontare l’altra verità, quella di tutti coloro che fino ad allora erano stati zittiti da una società incapace di includere chi deviava dal relativo concetto di normalità.