Mi piacerebbe riprendere a disegnare, ma non ho tempo. Ero fissata, ma ora col lavoro è impossibile, e comunque magari non sono neanche più brava. Forse dovrei fare un corso? Questa è la litania che ci accompagna nelle giornate, ore, minuti dedicati alla vita da adulti. Una vita costruita su un pilastro: la maturità arriva con l’indipendenza economica. Di conseguenza, tutte quelle attività che non producono denaro sono immature. Appartengono al dominio del gioco, dell’infanzia, della spensieratezza. Possono, al massimo, essere relegate negli spazietti vuoti lasciati dalle cose serie. Dei vezzi, dei capricci da assecondare solo dopo una lunga giornata di duro lavoro.
Che parola buffa che è hobby. Il significato attuale l’ha assunto con l’avvento della società industriale, quando c’è stata l’irreparabile scissione nella vita umana tra tempo libero e tempo di lavoro. Gli artigiani gestivano da soli le ore della loro giornata, mentre con l’industria sono arrivate le ore lavorative, le pause delimitate, la distinzione rigida tra il tempo da dedicare alla fabbrica e quello da dedicare alla vita. Il concetto stesso di tempo libero è caratterizzato da un’assenza: quella del lavoro. È lo spazio lasciato vuoto – libero, appunto – dall’attività principale e predominante nella vita dell’uomo. Le nostre identità sono state ridefinite in base alle nostre occupazioni: il medico, lo studente, l’operaio, il pensionato. E poi, ridefiniti e ricentrati i concetti di tempo e identità, doveva essere re-brandizzato quello di passione: ecco l’hobby.
Inizialmente gli hobby erano descritti come attività infantili o banali. Il collezionismo di francobolli, di monetine, il découpage. Questo mentre il tempo lavorativo assumeva un ruolo fondamentale: quantificare l’utilità economica. Il massimo della produttività doveva essere concentrato nella minima unità di tempo compatibile. L’auto-dominio del proprio tempo è stato espulso dal processo industriale o aziendale: anche se le pause sono previste, vengono rigorosamente computate e scandite. Però, dopo un po’, dei tentacoli hanno cominciato a insinuarsi anche in questi spazietti.
Non bastava il tempo dedicato al lavoro, bisognava crearne uno nuovo: il tempo dedicato al consumo. In Cronofagia – Come il capitalismo depreda il nostro tempo (D Editore), Davide Mazzocco si propone di svelare i meccanismi e le strategie con cui il tempo libero viene fagocitato dai cronofagi, i 7 principi dell’Ipercapitalismo di cui scriveva Jean Paul Galimbert. Il capitalismo è un sistema economico bulimico la cui fame si estende all’intangibile, e che non si accontenta solo del tempo lavorativo, ma cerca di erodere quello dell’inattività, quindi della non redditività. Ed ecco il modo: far sembrare lo sfruttamento del tempo libero come la giusta ricompensa dello sfruttamento del lavoro.
Mi spiego. Stacchi da lavoro, torni a casa. Hai varie opzioni: in primis, andare sui social. Passare il pomeriggio restante a creare meme e guardare reel. Nel caso in cui tu abbia le forze per prendere un po’ d’aria, andrai a bere uno Spritz con gli amici. Un caffè, una birra, un panino. O andrai al cinema. O a fare un giro nei negozi. I più frizzantini andranno in palestra a fare zumba. I meno frizzantini (come me) resteranno a casa a spararsi la serie nuova di Zerocalcare su Netflix. Insomma, qualsiasi scelta farai, consumerai. Cibo, alcool, prodotti d’intrattenimento. Sono rare, se non inesistenti, le modalità di aggregazione che non prevedano un tavolino di un bar o una quota d’iscrizione. Ed ecco la magia: tutti coloro che vengono sfruttati come lavoratori vorranno essere sfruttati come consumatori.
È questa la chiave: fare in modo che le persone lo vogliano. Agire sul desiderio. Far credere che la giusta ricompensa a una giornata di lavoro sia una birra, una spa o un auto-regalo. Insinuarsi nel mondo dell’intrattenimento, confezionare prodotti scintillanti che seducano le masse, trovare nuovi meccanismi per legarle a Instagram per ore. Il consumo è sexy, è lusso, è piacere. E c’è voluto un gran bel lavoro per renderlo tale. Theodor Adorno scriveva che la distinzione tra tempo libero e tempo lavorativo è illusoria, essendo entrambi inglobati in un sistema unico. Gli stessi hobby – i mille corsi a cui iscriversi per avere un sedere più sodo o per imparare a fare foto – non sono altro che un’istituzionalizzazione delle passioni che un tempo si coltivavano liberamente e senza costi.
Viviamo in uno stato costante di affaticamento, sensi di colpa per il passato e ansie per il futuro e, nei rari momenti di lucidità che ci permettono di riconoscere la nostra condizione, non abbiamo comunque il tempo per riprogrammare la nostra vita. Nella funzione sociale affibbiata al tempo libero – inchiodare l’uomo alla sua realtà di asservimento al lavoro e al consumo – manca un fattore fondamentale: la noia.
La noia, la noia è fondamentale. Dalla noia nasce il pensiero, lo slancio creativo, la riflessione. Addirittura, la possibilità di ripensare e rivedere i pilastri della propria routine. I cronofagi cercano in ogni modo di combattere la noia e la lentezza, facendo sentire chi le coltiva come un parassita, sempre buttato sul divano, pigro e improduttivo, perché l’unica fonte di creazione è il lavoro. E se non si crea, che almeno ci si muova. E si cerchi di colmare il senso di colpa con mille attività a pagamento. Sono state così invertite le funzioni antropologiche di ozio e lavoro, privando il primo dell’importanza vitale per lo sviluppo dell’umanità che sempre ha avuto. I lavori storicamente relegati agli schiavi sono stati identificati come scopo di vita, unico mezzo di realizzazione personale.
L’impresa è stata confusa con la famiglia – o, almeno, così si è cercato di raccontarla – ed esige un legame ugualmente radicale e totalizzante. Se il tempo del lavoro è diventato quello della realizzazione della sfera personale e affettiva, l’adesione al sistema economico non è più realmente frazionata, ma monopolizzante e incondizionata. La (con)fusione porta a una sottomissione di tutte le diverse sfere dell’esistenza personale e ai codici comportamentali della comunità di riferimento. Un po’ come una religione. Roy Rappaport scriveva in Ritual and Religion in the Making of Humanity della fondamentale contraddizione dell’umanità: il nostro bisogno di narrare il mondo secondo modalità che assegnino significato al nostro posto in esso può portare a costruire modi di stare al mondo che distruggono la stessa possibilità di trovare un significato più autentico.
C’è però un piccolo bug in questo sistema. Un errorino da correggere: il sonno. Otto ore – si spera – della nostra vita che passiamo a fare niente. Assoluta inattività. Immobilità totale. Occhi serrati. Impossibile da sfruttare economicamente. Un ultimo baluardo di inerzia, una nicchia di resistenza al capitale. Nel 2017, il CEO di Netflix lo disse chiaro e tondo: Siamo in competizione con il sonno. Si possono riprogrammare il tempo, il desiderio e la vita da svegli, ma il regno onirico ha ancora la sua indipendenza politica. Non accetta dominio se non quello del subconscio. Fino a ieri, dato che non era ancora stato trovato il modo di proiettare pubblicità nei sogni, l’unica strategia che il capitalismo ha avuto è stata quella di mangiucchiarne i confini. Ridurre il sonno all’osso. Oggi, però, anche quel regno è stato conquistato.
In una lettera aperta su DXE, tre ricercatori dell’MIT e di Harvard hanno rivelato che non solo la pubblicità onirica esiste, ma che è già stata pubblicamente testata. Qualche mese fa, la Molson Coors ha annunciato una nuova campagna pubblicitaria. Lanciata pochi giorni prima del Super Bowl, è stata concepita per infiltrarsi nei sogni. Il piano era utilizzare il TDI (targeted dream incubation) per alterare i sogni di ben 100 milioni di spettatori la notte prima della partita, specificamente per portarli a sognare la birra Coors in un pulito e refrigerante paesaggio di montagna. Tipo la Levissima. La Coors ha offerto cassette di birra gratis a chiunque avesse voluto partecipare a ciò che è stato chiamato il più grande esperimento onirico al mondo.
Attraverso specifici suoni e video, la pubblicità si potrà insinuare nel nostro subconscio. I tre ricercatori – sostenuti dalle firme di dozzine di scienziati – si sono detti terrorizzati da questa pratica intrusiva. Potrebbe interferire con il naturale processo di memorizzazione notturno, triggerare dipendenze e creare danni irreparabili nelle nostre menti. Eppure, la Coors non è sola. Xbox usa già il TDI per incubare sogni nei giocatori professionisti, così come l’ultimo gioco Tetris. I CEO della Coors Light e Coors Seltzer (rami della Molson Coors) hanno dichiarato che la pandemia ha creato in tutti noi incubi ansiogeni e bizzarri: perché allora non sostituirli? Assicurarsi un’esperienza rilassante e rinfrescante attraverso modalità di guida del sogno?
Non saremo liberi neanche nei sogni. Diventeremo esseri confusi, senza lucidità e senza riposo. Forse lo siamo già. Il capitalismo ha creato una società in cui tutto si paga col denaro, e il denaro è diventato una valuta più importante del tempo. I beni economici sono diventati una priorità, mentre quella vocina interna che ci ricorda che siamo profondamente infelici viene soffocata dalla stanchezza e dalle distrazioni, da un subconscio addomesticato, da un intrattenimento incessante. L’unica soluzione che ci viene offerta è ancora neoliberale: terapie psicologiche privatizzate e antidepressivi.