Sole poche ore fa abbiamo ascoltato l’accorato discorso del nuovo Presidente del Consiglio – come lei stessa ha deciso di farsi chiamare utilizzando un appellativo al maschile – in difesa dei valori della libertà e contro ogni forma di totalitarismo. Un discorso che altro non è se non un sapiente gioco di retorica, in cui si dice tutto e il suo contrario. Eppure, delle parole contano molto più i fatti e, stando a questi ultimi, in soli pochissimi giorni dall’inizio della XIX Legislatura, sono stati presentati già innumerevoli disegni di legge sui più disparati argomenti, a cominciare dal diritto all’aborto fino ad arrivare alla giustizia. Direte voi che si tratta di un bene se i rappresentanti politici si danno da subito così da fare, ma vediamo in quale direzione, in particolare per quanto riguarda il sistema penitenziario.
Su quest’ultimo fronte, sono già tre le proposte di legge avanzate e che mirano a limitare la finalità rieducativa della pena – come se nei fatti questa non fosse già abbastanza insoddisfacente – alimentando l’idea nostrana di condanna che equivale a punizione e repressione. Innanzitutto parliamo della proposta a firma del deputato Eduardo Cirielli, di Fratelli D’Italia, che ha l’intenzione di modificare l’articolo 27 della Costituzione nel senso di subordinare la finalità rieducativa a un’indeterminata analisi della pericolosità sociale del condannato e alla sicurezza dei cittadini. Di per sé, ciò avviene già, considerato che esistono particolari modalità di espiazione della pena per chi è considerato socialmente pericoloso affinché, appunto, non arrechi danno ad altri. Tuttavia, una simile dicitura presterebbe il fianco a indeterminate pene che non raggiungano altro fine se non quello dell’emarginazione e dell’esclusione sociale del condannato, esattamente il contrario di ciò che è stato stabilito dalla Costituzione.
Si tratta di una proposta che era già stata avanzata nel 2013 e poi lo scorso anno, in particolare a seguito della sollecitazione intervenuta nei confronti del nostro legislatore – e rimasta per l’ennesima volta non accolta – da parte della Corte Costituzionale di modificare la disciplina riguardante l’ergastolo ostativo perché incostituzionale e, in particolare, confliggente con la finalità rieducativa sancita dallo stesso articolo 27. E così il partito capeggiato da Giorgia Meloni ne propone la modifica anche al fine di aggirare l’ostacolo dell’incostituzionalità, dietro lo schermo della certezza della pena. Ciò che forse sfugge è che certezza della pena non significa né perpetuità della stessa né arbitrarietà, ma solo certezza agli occhi dell’intera comunità che a un’infrazione segua una precisa sanzione, di cui però deve essere chiara la finalità che non può essere stravolta in nome di un giustizialismo che intaccherebbe la nostra Carta Costituente in quelle sue parti che la rendono così progressiva. Intanto, la pronuncia della Consulta è stata rimandata al prossimo 8 novembre e troverà nuovamente l’Italia inadempiente nel campo di diritti imprescindibili.
Due proposte provengono invece dalla Lega, e in particolare da Jacopo Morrone, che non fa che riproporre gli stessi schemi portati alla ribalta da Matteo Salvini in questi anni. A partire dalla dotazione del taser per la polizia penitenziaria che, come abbiamo sottolineato più volte, farebbe tornare il carcere indietro di un secolo, trasformandolo in un luogo ancora più repressivo, in particolare nei confronti delle persone più vulnerabili che lo abitano, senza contare gli innumerevoli pericoli che sono collegati al suo utilizzo, dentro e fuori dalle mura carcerarie.
Insieme al leader del Carroccio, lo stesso esponente della Lega aveva già portato avanti questa battaglia, anche nel periodo in cui Ministro della Giustizia era Alfonso Bonafede, oltre che quando, pochi mesi fa, il taser è diventato dotazione ordinaria delle forze dell’ordine impegnate nella cosiddetta gestione del territorio di molte città italiane. Ricordiamo che una simile decisione nelle carceri confliggerebbe apertamente con l’articolo 41 della legge sull’ordinamento penitenziario, che stabilisce espressamente che gli agenti in servizio nell’interno degli istituti non possono portare armi se non nei casi eccezionali in cui ciò venga ordinato dal direttore e che l’impiego della forza fisica sia possibile solo in eccezionali ipotesi (se non sia indispensabile per prevenire o impedire atti di violenza, per impedire tentativi di evasione o per vincere la resistenza, anche passiva, all’esecuzione degli ordini impartiti).
Avevamo già avuto prova di quanto il personale penitenziario rappresentasse un interlocutore privilegiato di Matteo Salvini, che, in più occasioni, gli ha ribadito il suo sostegno perché, del resto, la parola dei poliziotti vale sicuramente di più di quella di chi sta scontando una pena, per il quale non c’è altra soluzione che gettare le chiavi. L’avevamo visto prendere le parti degli agenti indagati per le torture avvenute nel carcere di San Gimignano, così come in quello di Santa Maria Capua Vetere, pensando forse che sia una divisa a fare l’integrità di un essere umano.
Di una simile cecità è forse espressione l’ulteriore proposta di legge presentata dalla Lega per l’introduzione dei funzionari tecnici (oltre che di medici e psicologi) che appartengano al corpo di polizia penitenziaria. Una analoga idea era già stata paventata per i funzionari pedagogici, annientando così quella necessaria dicotomia tra area educativa e custodiale presente in carcere. Se sicurezza e rieducazione non sono certamente contrari irriducibili, e le due attività devono necessariamente andare di pari passo, è anche vero che non si può sovra-rappresentare la forza di polizia, facendo così prevalere l’ambito securitario e l’attività di custodia.
Il mondo penitenziario è un vero e proprio ecosistema che faticosamente mantiene il suo equilibro, con scarsissimi risultati in termini di rieducazione. Eppure, questi potrebbero essere addirittura nulli se avanzassero nell’approvazione proposte come quelle appena prospettate. La Carta Costituente parla chiaro: la rieducazione non ammette alcun “ma” ed è l’unico fine a cui dovremmo orientare il nostro miglioramento strutturale.