Che cosa provo per ciò che scrivo? questo libro, cioè, “Le Ore”, se questo sarà il titolo? Voglio rappresentare la vita e la morte, le sanità e la pazzia: scrive così Virginia Woolf il 19 giugno del 1923 nel diario, durante la gestazione di questo lavoro che nasce sotto un altro titolo e che assume come protagonista una perturbante signora, la quale piano piano prende forma nella scintillante mente dell’autrice.
Di nuovo attraverso le sue annotazioni sui diari, scelte con cura e riportate da Nadia Fusini, possiamo addentrarci nelle meditazioni della scrittrice inglese e capire le ragioni più profonde di quest’opera, La signora Dalloway, che ancora doveva vedere la luce ma che aveva già un tema attorno al quale avrebbero orbitato tutti gli altri, la mezza età: Che sia questo il mio tema. Ho paura di invecchiare. Siamo pieni di cose da fare e diamo tanta importanza alle ore. E ancora scriverà: L’amore è diabolico; Voglio criticare l’intero sistema sociale; La vita è la mia questione.
Virginia Woolf, scrittrice, inserisce nelle sue opere tutte le vibrazioni che si originano nella sua vita ed è per questo che non separa mai la sua persona dalla narratrice, sostenendo che quando uno scrittore scrive raschia il fondo della sua esperienza; e perciò, che si tratti di uno scritto autobiografico e/o del tutto risalente ai capricci della sua immaginazione, La signora Dalloway, questo libro che è stato un’impresa scrivere, uno dei più crudeli e difficili, è un fenomenale romanzo a porte aperte, spalancate, che studia la dimensione del fuori ma soprattutto del dentro.
Londra è sfondo e linfa vitale del romanzo, perché offre le sue strade come palcoscenico sul quale si rendono visibili a macchie d’ombra e di luce passanti assorti nell’esperienza di una solenne flânerie, per poi rendersi invisibili ma non uscire affatto dalla scena. Sono sempre tutti potenzialmente presenti e assenti, tutti sotto gli sguardi altrui e ognuno ne sfugge cercando di rincorrere un tempo inconcludente, racchiuso in un attimo di giugno.
A questa poetica del fuori scandita dalle ore di piombo e dai ruoli sociali, si alterna così una poetica del dentro, nella quale il tempo si fa evanescente e la memoria si fa presente. In questa memoria come intérieur, come spazio intimo e guscio di protezione, prendono posto tutti i sentimenti, le visioni e gli oggetti che danno il significato stesso dell’abitare. Ma non si tratta tanto degli oggetti fisici che circondano l’essere e ne danno una rappresentazione (come succede ad esempio nello scritto woolfiano intitolato Ritratto di una londinese), ma piuttosto a popolare l’intérieur sono le sensazioni, alle quali, nello spazio protetto del dentro, dell’interiorità, ci si può abbandonare completamente e liberarsi da ogni forma, raccogliendosi per essere.
Sono pochi, infatti, gli oggetti che compaiono nella storia con una sagoma preponderante, sono piuttosto rilevanti i rituali che con tali oggetti si svolgono, oppure ciò che c’è di fantastico dietro il loro velo reale: Dolcemente la tenda gialla si gonfiò e fu come se un volo d’ali riempisse la stanza; si sollevò; poi ricadde. (Le finestre erano aperte).
In questo interno dell’essere ci sono tutte le vite possibili ed è qui che Clarissa accoglie la vita rifiutata da Septimus e quella che, intanto, continuava per tutti gli invitati, troppo presi da sé per lasciarsi sopraffare dall’idea di un uomo che fino a poco tempo prima era solo un condannato, abbandonato da tutti, completamente solo, come è solo chi sta per morire; e, anzi, agli occhi dell’alta società c’era un privilegio in questo, un isolamento che aveva del sublime, una libertà che chi ha legami non potrà mai conoscere.
Eppure costui un legame l’aveva, Rezia, disperata quanto innamorata, l’unica a struggersi per amore in questo romanzo di orgogliosa femminilità, delle perle e del rammendo; l’unica, insieme al più sostenuto Peter Walsh che, in lotta con se stesso e con un sentimento passato, ancora troppo caldo (seppur incerto) per una personalità così fredda come quella di Clarissa, ha il vizio di giocare nervosamente col temperino. I due, Rezia e Peter, pur non conoscendosi e non incrociandosi, sono entrambi, negli stessi istanti, presi da un suono fragile, un’antica canzone che si diffonde come una voce senza età né sesso dalla stazione di Regent’s Park.
Si tratta di una povera vecchia che canta l’amore perduto in un giorno di maggio, così mitico da poter risalire a secoli fa, e il dolore da lei espresso appare altrettanto mitico che può appartenere a chiunque. Peter Walsh le dà una moneta prima di andarsene in taxi, poi l’aurea mitica emersa da questa canzone, insieme alla moltitudine di gente che affollava il marciapiede, svanisce come foglie che a forza di essere calpestate, impregnate, intrise dalla sorgente eterna, ridiventeranno terra. In questo spazio svuotato di colpo, compare poi Rezia Smith, pronunciando due scarne parole: Povera vecchia.
In conclusione, secondo la scrittrice Nadia Fusini, studiosa appassionata della Woolf, per Clarissa Dallaway la festa è un’esperienza che apre a un orizzonte trascendente. Tale orizzonte trascendente possiamo intenderlo un po’ come quella finestra che, dalle strade di Londra, Virginia Woolf penetrava con lo sguardo in una continua ricerca di storie. Ed è, inoltre, sempre dalla finestra che Clarissa si affaccia appena sveglia e vi ritorna al concludersi dei festeggiamenti.
Alla finestra, come si è già raccontato, Clarissa vede quella signora che le concede di prendersi un attimo di riflessione. Nadia Fusini paragona la vecchia – scorta alla finestra al culmine della festa – alla luna, che diffonde una luce benevola sul mondo e su Clarissa, la quale è sola in un cosmo notturno ed è affondata sensibilmente nel suo interiéur, lo spazio più intimo del sé.
Osservando così la luna mentre si prepara per la fine, per il sonno, Clarissa Dalloway resta nella sua dimora intima ancora per un po’, con i suoi pensieri, con le sue preoccupazioni, con il sollievo di quell’attimo lontano dai riflettori del ricevimento, raggiungendo quasi un corridoio di mezzo tra il dentro e il fuori. Immersa in due correnti, può essere qui e là, può spingersi in profondità, svincolarsi, e ritornare come un’onda.
Perciò, Chiusi nell’essere, dovremmo sempre uscirne; appena usciti dall’essere, dovremmo rientrarvi. In tal modo, nell’essere, tutto è circuito, tutto è rigiro, tutto è ritorno, discorso, tutto è uno sgranarsi di soggiorni, tutto è un ritornello di strofe senza fine (Gaston Bachelard, La poetica dello spazio).
Alla festa di Mrs Dalloway: “quell’attimo di giugno” (pt. 1)
Alla festa di Mrs Dalloway: la vita, la morte, le ore (pt. 2)