La tragedia è imitazione di un’azione seria e conclusa, dotata di grandezza, con un discorso reso piacevole, differentemente per ciascun elemento nelle sue parti, di persone che agiscono “direttamente” e non tramite narrazione, la quale imitazione, attraverso compassione e paura, porta ad effetto la catarsi di siffatte passioni.
È così che Aristotele, nella sua Poetica (IV secolo a.C.), definisce il genere tragico. Si è abituati a distinguere la tragedia dalla commedia secondo un tratto distintivo ben preciso: si ha, nel primo caso, un finale per l’appunto tragico (la morte dell’eroe o eroina della storia), e nel secondo un lieto fine. In realtà, già a partire dalla letteratura greca del V secolo a.C. sono rappresentate storie di personaggi che passano, per dirlo con le parole di Aristotele, dalla cattiva alla buona sorte. Basti considerare opere drammaturgiche come l’Alcesti e l’Ifigenia in Aulide di Euripide. Nella prima, infatti, Alcesti è una donna che sceglie di sacrificare la propria vita alle divinità pur di salvare quella del consorte re Admeto, ma Eracle scende negli Inferi per affrontare Thanatos, signore della morte, e riportare alla vita Alcesti. In Ifigenia in Aulide, invece, la giovane omonima viene strappata, proprio a pochi istanti dal sacrificio a favore della flotta del padre Agamennone, dalle mani della morte grazie alla dea Artemide, che la sostituisce con una cerva. E così la buona sorte fa da conclusione anche ad altre tragedie, come le Supplici e le Eumenidi di Eschilo e il Filottete di Sofocle.
Perché, allora, tali rappresentazioni teatrali sono considerate tragiche pur presentando un lieto fine?
Il vero fattore che rende una tragedia tale non è il finale, ma il sentimento di angoscia e dolore provato dai protagonisti nel corso di una compassionevole vicenda. Quando il re Admeto ha bisogno di qualcuno che si sacrifichi al suo posto e i suoi genitori si rifiutano di farlo, la moglie Alcesti offre la sua stessa vita.
Admeto: Il sole vede te e me, due infelici che niente hanno fatto agli dei perché tu debba morire.
[….]
Alcesti: Mi trascina, mi trascina, non vedi?, alla casa dei morti un essere alato che sotto il nero splendore delle ciglia getta uno sguardo di morte. Che fai? Lasciami. Quale via percorro, infelicissima!
La coppia è presa dal dolore e dallo sgomento – riversati con grande maestria sugli spettatori del dramma – e chiede invano pietà agli dei. È il dolore per un amore stroncato da Thanatos, per l’egoismo dei due anziani che hanno messo al mondo Admeto, e che non dà pace al re innamorato, il quale promette di amare la sua sposa anche quand’ella avrà lasciato il mondo dei vivi. Se tu muori, afferma disperato, io non posso sopravvivere; in te sta che io viva o non viva, perché io adoro il tuo amore. [….] Poiché t’ho avuta da viva, anche da morta sarai la mia sola donna. [….] Porterò il tuo lutto non per un anno, ma finché durerà la mia vita, odiando mia madre e detestando mio padre, che mi volevano bene a parole, non a fatti. Tu per la mia vita hai dato quello che avevi di più caro, e mi hai salvato. Come posso non piangere, perdendo una tale sposa?
Anche i re promettono amore eterno e, soprattutto, piangono. Lo stesso pianto dà loro – persone potenti e superiori – la dignità e la consistenza morale di uomini comuni. Come Admeto, infatti, anche Agamennone è disperato all’idea della morte di sua figlia. Il re degli Achei si pente di aver ingannato la fanciulla e, nonostante questi costituisca un esempio di grande determinazione e forza, non fa altro che vacillare e cambiare continuamente idea riguardo al sacrificio della vita di Ifigenia. I grandi personaggi della mitologia, valorosi combattenti o fermi re, vengono rappresentati in tutta la loro umanità attraverso l’espediente del dolore, che mette sullo stesso piano i deboli e i potenti. Pertanto, nonostante Ifigenia in Aulide presenti molti elementi tipici della commedia, è proprio il vacillamento di Agamennone, la sua mancata risoluzione, così come il terrore dell’innocente Ifigenia che chiede pietà, a renderla una tragedia di intenso pathos.
Il tratto distintivo del tragico, secondo lo studioso Guido Paduano, la stretta angosciosa capace di suscitare nello spettatore i sentimenti aristotelici del phobos e dell’eleos, della paura e della pietà, coinvolge la dinamica dell’azione e non comunque il suo scioglimento [….] Vi è nella sofferenza umana una dignità e una forza che si impongono a prescindere da ogni altra considerazione, e di per sé richiedono allo spettatore un’identificazione emotiva immediata.
Il dolore, l’angoscia e soprattutto la paura sono istanze utilizzate non solo ai fini della tragedia stessa, ma anche per permettere allo spettatore di trovare un punto d’incontro tra la sua personale profondità emotiva e quella dei personaggi rappresentati. Ne nasce un coinvolgimento sul piano emozionale la cui conseguenza naturale è l’immedesimazione del reale con il fittizio, quest’ultimo reso verosimile dall’impatto che i sentimenti umani hanno sulla storia e sulla platea che ne è testimone.