Due neogenitori stanno affrontando un incubo che ha letteralmente preso forma, un incubo che nessuno, al mondo, vorrebbe mai vivere. La tragedia avviene il 7 gennaio all’ospedale Pertini di Roma dove un neonato, di appena tre giorni, muore. La madre, trent’anni, si sarebbe addormentata, sfinita, dopo molte ore di travaglio, e il bambino lasciatole in stanza trovato senza vita, verosimilmente, a causa di un soffocamento. La procura apre un fascicolo d’indagine per omicidio colposo.
Gli esami tossicologici negativi smentiscono subito la possibilità che lo stato soporoso della donna sia stato dovuto all’effetto di farmaci la notte in cui si è addormentata con il bambino nel letto accanto a lei. La madre era unicamente provata da abnorme stanchezza fisica e mentale dovuta al lungo travaglio e alla mancanza di sonno.
Come sempre accade, in queste storie, il processo mediatico diventa inevitabile e tra la maggior parte dei commenti dell’utenza si respirano esperienze di abbandono a opera del personale sanitario nei confronti delle neomamme. Come se per la donna, una volta espletato il parto, iniziasse una discesa verso un inferno fatto di dubbi, paure e senso di inadeguatezza. Per fortuna, non avviene sempre.
Diventa facile, in casi così delicati, abbandonarsi al sensazionalismo ma proviamo ad analizzare la questione da un punto di vista più oggettivo possibile. Innanzitutto che cos’è il rooming-in? Il rooming-in sostiene il contatto tra neonato e mamma sin dalle prime ore dopo la nascita. OMS e UNICEF promuovono questo modello che permette al piccolo e alla neomamma di condividere la stanza ventiquattro ore su ventiquattro. Il protocollo prevede, infatti, di tenere nella propria stanza il bambino dopo il parto giorno e notte, senza limiti di orario. I benefici del rooming-in sono numerosi e dimostrati da svariati studi ma dovrebbe essere sempre e comunque una scelta libera della mamma. In merito al caso di Roma, sappiamo che la donna ha dato il suo consenso. Qualsiasi protocollo dovrebbe tuttavia comprendere un’ampia parte educativa ed essere sempre contestualizzato, adattato e personalizzato nei confronti dell’utenza.
Durante il picco di ondate pandemiche, molte strutture, di norma, hanno scelto logisticamente di ridurre gli orari di visita non solo per i familiari ma anche per i padri dei nascituri. Le neomamme si sono trovate completamente sole e senza sostegno adeguato da parte del proprio compagno o di una persona cara. Il rooming-in in completa solitudine può rivelarsi molto complesso (soprattutto nelle donne che hanno subito un parto cesareo).
Nel caso di Roma, a mio parere, non si deve puntare il dito verso il protocollo del rooming-in ma, piuttosto, all’applicabilità dello stesso in quella particolare situazione. Deve essere messa in discussione la mancanza di ascolto attivo ed empatico nei confronti di una madre che ha manifestato del chiaro disagio e dell’evidente stanchezza. L’ospedale Pertini diffonde una nota riguardante l’adeguata presa in carico ed il rispetto dei requisiti organizzativi smentendo le accuse sulla carenza di personale. Il calcolo dei rapporti assistenziali tra numero di operatori per pazienti, lo dico da infermiera, è spesso obsoleto e non di pari passo con le esigenze della popolazione, i crescenti bisogni di salute (anche educativi) e la presa in carico olistica.
È importante, quindi, interrogarsi sulla solitudine della neo madre e sulla mancanza di quei controlli che avrebbero portato al non accorgersi, tempestivamente, dell’esito fatale. Una delle regole base dei protocolli internazionali sulla sicurezza del neonato è che, dopo l’allattamento, il bimbo deve essere depositato in culla. Questo è previsto proprio per evitare i danni collaterali del co-sleeping, che è considerato tra le prime cause di morte dei neonati.
Superata la fase emergenziale della pandemia (che, non smetterò mai di ripetere, ha portato a galla l’evidente problema della carenza di personale all’interno delle corsie) dovrebbe essere lecito in tutte le strutture – in alcune vige già questa possibilità – di avere per la gestante un accompagnatore. In alcune strutture viene persino permesso all’accompagnatore di dormire con la gestante.
La tragedia accaduta alla sfortunata neo madre romana ha scatenato una vera e propria rivoluzione delle mamme che denunciano le loro esperienze di abbandono nel post-parto. Leggerle mi fa provare profonda amarezza in primis come donna e in secondo luogo come operatrice sanitaria. Dalla mancanza di empatia e di supporto vi sono dei casi che sfociano nella percezione di abbandono totale. Altri ancora verso la tremenda sensazione di provare vergogna nel chiedere aiuto, sentirsi colpevolizzate per ammettere, in quegli istanti, di non farcela. Alcune madri scrivono che assieme a un corso pre-parto sarebbe necessario un corso post-parto, ritenendolo il momento più difficile da affrontare.
Ammettere di non farcela a prendersi cura di un figlio nei suoi primi istanti di vita (o nelle prime settimane) non dovrebbe far sentire la donna “meno madre”, così come legittimare il dolore che la donna prova durante i tempi del parto e minimizzare le sensazioni del post-parto fisiche e/o psicologiche è profondamente sbagliato. Inutile negare l’evidenza che il Covid, tra i vari danni, in questi anni ha reso coloro che affrontano l’esperienza del travaglio ancora più sole.
Non sono madre ma non ho mai sentito una delle persone che conosco ricordare il momento del parto con nostalgia. Ho assistito a vari parti (fisiologici e non) durante la mia esperienza lavorativa e noto la tendenza, nella società, a romanticizzare un momento che non ha proprio niente di romantico. Poche donne hanno il coraggio di raccontare la verità.
Ogni donna merita rispetto. Ogni dolore merita di essere trattato con dignità. Ogni richiesta di aiuto ascoltata e non giudicata.