È l’8 marzo 2020. Noi, nelle nostre tiepide case, ci rendiamo conto, forse per la prima volta, del pericolo rappresentato dalla pandemia, dalla vicinanza, dalle persone e da tutte le attività che di solito svolgiamo con disinvoltura. Intanto, chi è detenuto raccoglie informazioni frammentarie e all’improvviso scopre di non poter vedere i propri cari. Per un mese, due mesi, non si sa per quanto. Ci raccomandano di stare distanti, di non toccarci, di restare un metro gli uni lontani dagli altri. E, intanto, negli istituti di pena le persone recluse sono stipate come bestiame, condividono spazi, letti, cibo, vite spezzate.
Scoppiano delle rivolte, durante gli scontri muoiono tredici detenuti. Nove sono reclusi del carcere Sant’Anna di Modena, quattro tra questi perdono la vita durante i trasferimenti disposti coattivamente, senza che sia effettuata alcuna visita medica, senza che siano accertate le condizioni di chi sta per viaggiare, senza che le famiglie vengano informate prontamente. A pochi giorni di distanza, l’Associazione Antigone presenta un esposto contro gli agenti e il personale sanitario per omissioni e colpe nella tragedia avvenuta.
Non vengono spese molte parole per chi ha perso la vita, si liquida la vicenda con pochissime sillabe: overdose da farmaci, sottratti in luoghi in cui erano correttamente custoditi, si intende. E dopo che i nomi delle persone detenute non vengono pronunciati per giorni, che vengono ignorate le chiare responsabilità istituzionali per quanto avvenuto, si giunge all’archiviazione del fascicolo per otto delle nove morti. Tranne che per Sasà Piscitelli, deceduto dopo essere stato trasferito nel carcere di Ascoli Piceno, del racconto della cui morte però si sono fatti carico cinque coraggiosi detenuti che hanno mostrato la brutalità di cui il nostro sistema penitenziario è capace anche agli osservatori più disattenti. A quelli che pensano che il carcere non sia una cosa che li riguarda. Violenze e pestaggi, su quei corpi che appartenevano a chi oramai non era in sé, a chi si trovava in un palese stato di alterazione psicofisica, e su cui comunque lo Stato ha voluto affermare forte e chiara la propria supremazia.
Ora però sembrano emergere nuovi elementi e quattro agenti in servizio presso il Carcere Sant’Anna sono indagati per tortura e lesioni aggravate: i detenuti li hanno riconosciuti, hanno avuto il coraggio di denunciare e di ripercorrere quelle terribili ore in cui – come accade oramai troppo spesso – le telecamere dell’istituto hanno smesso di riprendere ciò che accadeva intorno. Il numero di indagati potrebbe crescere, e ci auguriamo che stavolta le autorità non infilino la testa sotto il tappeto.
Intanto, nascono spontanee le iniziative per ricordare e ricordarci che sono passati due anni. E che, se non fosse stato per le associazioni e per una piccola parte della società civile, tutto sarebbe accaduto in silenzio, come se niente di tutto questo ci avesse riguardato. Perché non siamo noi a vivere la prigionia, a essere privati degli affetti, a sentirci svuotati della nostra dignità.
Noi non archiviamo: questo il nome dell’evento organizzato per l’11 e il 12 marzo a Modena, per riportare al centro del dibattito la questione della detenzione, le cui storture sono state messe in evidenza tutte dalla pandemia. In quelle ore si avrà la possibilità di confrontarsi su quanto è avvenuto e sta avvenendo, e si presenterà la seconda edizione del Dossier sulle violenze del carcere modenese, frutto del lavoro collettivo del Comitato Verità e Giustizia per le morti del carcere Sant’Anna che ha ripercorso le violenze e le responsabilità taciute. Il ricavato degli eventi sarà utilizzato, inoltre, per permettere il trasferimento in Tunisia della salma di Hafed Chouchane, una delle vittime il cui nome e la cui storia sono rimasti invisibili troppo a lungo e per i quali la famiglia si sta battendo per fare chiarezza.
Il carcere, in questi due anni, ci ha dimostrato – se ce ne fosse ancora stato bisogno – di essere brutale, disumano e ingiusto. La pandemia ha solo amplificato le criticità già presenti: il sovraffollamento, le condizioni igienico-sanitarie precarie, la mancanza di un supporto medico e psicologico costante negli istituti di pena. Dunque, la violenza non è il solo problema – come ha messo in luce l’Associazione Antigone nel suo ultimo rapporto – eppure è quello che ci è balzato agli occhi più prepotentemente. San Gimignano, Santa Maria Capua Vetere, Modena sono solo le punte di un iceberg che non possiamo più ignorare.
Sono passati due anni e una flebile speranza si intravede. La luce è ancora lontana, ma come collettività abbiamo il dovere di mettercela tutta per fare, finalmente, verità e giustizia.