Se la Storia non insegna niente, come sembra si evinca dal millennio che si allontana a poppavia, noi impariamo almeno ad andare in bicicletta.
Quella che Emilio Rigatti racconta nel suo romanzo La strada per Istanbul (Ediciclo), che è un vero e proprio diario di viaggio, è la storia di un’avventura che, a leggersi oggi, suona come anacronistica, quasi appartenente a un’epoca lontana. L’Europa iperconnessa dalle low cost, il mondo collegato nel Metaverso, le chat, gli avatar, dipingono una realtà che con l’immagine di tre amici che imbracciano le biciclette e affrontano 2136 chilometri, da Trieste alla capitale turca, sembra non avere nulla a che fare.
Invece, la romantica traversata intrapresa da Emilio Rigatti, Francesco Tullio Altan – conosciuto ai più per il suo personaggio più iconico, la Pimpa – e Paolo Rumiz è ancora attuale e affascina decine, centinaia di appassionati che, ispirati dall’impresa dei tre amici, saltano in sella e affrontano i Paesi dell’ex Jugoslavia diretti a Istanbul.
La casa editrice più amata dagli appassionati della bicicletta ripubblica, dopo la prima edizione del 2002, la versione tascabile dell’opera. Abbiamo intervistato l’autore.
Emilio, il tuo è un viaggio che, a parlarne oggi, sembra quasi anacronistico. Non ci si immagina dei ragazzi dirsi andiamo in bici a Istanbul, anzi, probabilmente guarderebbero alle offerte di Ryanair. Invece, tu e i tuoi amici prendete la bicicletta, attraversate diversi Stati, conoscete centinaia di persone, pedalate tanto su autostrade quanto su strade sterrate. Forse è una domanda banale, ma dove nasce l’idea di un viaggio così?
«L’idea nasce da Paolo Rumiz. Con lui siamo diventati amici nel ’97-’98, conoscevo suo fratello. Paolo ha sempre idee di viaggi di conoscenza, è una persona molto curiosa. Mi domandò: perché non facciamo la grande diagonale in bicicletta, partiamo da Trieste e arriviamo a Istanbul? Sapeva che ero un ciclista, motivo per cui risposi immediatamente di sì. Poi scoppiò la guerra, i bombardamenti nel ’99 a Belgrado, e fummo costretti a rimandare il viaggio. Divenni presto l’anima organizzativa, anche perché Paolo era coinvolto in altri progetti, mentre per me era l’unico a cui mi dedicavo a quei tempi. Quando la guerra terminò, ci convincemmo a intraprendere la pedalata. Si unì a noi Checco Altan – che è stato l’illustratore del viaggio –, di cui sono molto amico. Un viaggio bellissimo, senza l’ombra di un problema… a parte qualche piccolo imprevisto».
Pensi che la Guerra del Kosovo, oltre ad aver spostato le date, possa aver avuto un impatto sul vostro viaggio? Quale?
«Sicuramente ha avuto impatto sulle date. In verità, partii con un po’ di paura all’idea di attraversare la Serbia. In fondo, i nostri militari partivano da Aviano e bombardavano Belgrado, quindi mi domandavo come ci avrebbe accolto la popolazione locale. E invece, quella paura, quella sorta di senso di colpa, mi tenne in ansia solo fino al punto in cui a Bačka Palanka attraversammo la frontiera tra Croazia e Serbia, e i doganieri e le doganiere ci accolsero benissimo. Mi accorsi che non eravamo gli italiani bombardieri, ma gli amici italiani che tornano dopo la guerra. Ricordo in un ristorante, avevamo dei vicini di tavolo, dei tipi particolari – a quei tempi li avremmo definiti fricchettoni – che ci sentirono parlare in italiano, si avvicinarono e ci invitarono in radio a raccontare del viaggio. La guerra influenzò certamente quella traversata, anche perché si scorgevano, qua e là, le fabbriche bombardate, le facciate dei palazzi colpite dai proiettili. La guerra era nell’aria, ma non ci ha disturbato, semmai ci ha fatto pensare».
Mi racconti la più grande difficoltà per un simile viaggio?
«Decidere di partire. Se decidi di intraprendere un viaggio del genere devi avere delle basi di ciclismo, pur non essendo un esperto. La difficoltà maggiore sta nel mettersi in testa di fare un viaggio lungo, una passeggiata di diciotto giorni, dove fermarsi a conoscere. Oggi lo rifarei, ma in sessanta giorni, così da fermarmi più spesso. Ci sono delle salite, ecco… ci vuole gamba».
Qual è l’aneddoto a cui tieni di più, se ripensi a quel viaggio?
«Domanda difficile. Direi la birra di Istanbul. Partimmo con l’idea di andare a bere la birra più buona del mondo e qual era se non quella che al termine dei 2136 chilometri di traversata e caldo feroce avremmo trovato all’arrivo in Turchia? Una volta a destinazione ci ubriacammo di birra Efes, la più piacevole che abbia mai bevuto. L’altro aneddoto che mi viene in mente riguarda Paolo che, a differenza di me e Altan che eravamo esperti, portava le mutande sotto la tuta. Noi gli dicevamo Rumiz, quando vai in bici metti solo i pantaloncini. Gli rompemmo talmente le scatole che in Slavonia, in un campo di mais, si sfilò le mutande e le lanciò in aria nel cielo della Croazia. Fui anche pronto a immortalare quel momento iconico e divertente. Ogni giorno aveva un aneddoto».
Come dicevo in apertura, voliamo a prezzi bassissimi, siamo super connessi, ci si incontra su internet. Vedi possibile un viaggio così oggi e a chi lo consiglieresti?
«Per me è possibilissimo e c’è – per fortuna – gente che ancora mi scrive su Facebook e affronta viaggi anche più complessi. C’è il mondo Ryanair, ma c’è anche un mondo di ciclisti e, adesso, anche un mondo di ciclisti elettrici che intraprendono itinerari come il nostro. Conosco persone che, ispirate da noi, hanno rifatto il viaggio, lo stesso tragitto. Si tratta di un viaggio romantico, è così bella l’idea di spostarsi lentamente: a piedi, a cavallo, in bicicletta».
Credo che la più grande ricchezza sia quella di conoscere persone e culture diverse. Sei d’accordo?
«Sono assolutamente d’accordo. Ho vissuto sette anni in Sud America, a Bogotà, ho girato la Colombia in bicicletta, adesso farò volontariato con dei ragazzi afghani. L’interculturalità è un valore in cui mi riconosco. Dai sapori alle parole, agli sguardi, ai modi di pensarla diversamente. La bicicletta è un esaltatore di sapidità, ti pone nella condizione di essere accolto con maggiore attenzione e cura. Quando ti fermi in un posto con la tua macchina, prendi un caffè e vai fuori; se vedono la bici, invece, diventa subito un elemento di comunicazione. La bici esalta questo senso di interculturalità. Non sai quante volte ho dormito a casa di gente che non conoscevo. L’andare lenti predispone alla comunicazione tra persone diverse, abbatte ogni barriera o conflitto».
Dopo tanto tempo questo libro ancora raggiunge lettori e ispira persone. Che effetto ti fa?
«Mi fa grande piacere. Quando un amico ti consiglia una bella cosa, che sia un piatto gastronomico o un viaggio, e tu la apprezzi, ti rende felice. A me piace l’idea che qualcuno legga i miei libri e faccia qualcosa su mio suggerimento. Sono un professore di scuole medie e anche con i ragazzi è stato sempre questo il nostro rapporto. Ho come l’idea di aver dato dei buoni consigli a degli amici che non conosco. E spero di aver regalato loro qualche pedalata di felicità».