La stagione delle spie (minimum fax) è un reportage costruito con fonti dirette, documenti riservati e incontri con i protagonisti da Antonio Talia, già autore di importantissime inchieste come Statale 106, legata al mondo della ’ndrangheta calabrese, o Milano sotto Milano.
La stagione delle spie è il racconto di una lunga operazione di spionaggio condotta attraverso furti di dossier, appuntamenti segreti e altre regole d’ingaggio classiche adoperate dalla Russia di Putin verso l’Occidente in cui l’Italia ha un ruolo centrale.
Abbiamo intervistato l’autore.
In Italia non siamo abituati a sentir discutere di spie e attività di intelligence. Come si parla, dunque, al lettore comune di un tema così serio e importante?
«In Paesi come la Francia, il Regno Unito o la Germania vi è una comunicazione molto più precisa, mentre nel nostro Paese sono pochissimi i corrispondenti che si occupano specificamente di questo genere di cose e restano sempre sullo sfondo. Per parlare di spionaggio, e far sì che il messaggio possa arrivare a un pubblico vasto, tocca far capire che vi sono in ballo interessi nazionali. Quando questo interesse viene violato in seno ad apparati che si occupano di servizi di informazione – banalmente conosciuti come servizi segreti – va fatto comprendere che le ripercussioni possono avere effetto sulla vita di tutti i giorni e di chiunque. Faccio un esempio: quando viene violato un segreto aziendale di un’industria italiana, gli effetti possono ripercuotersi sulle condizioni di lavoro dei dipendenti di quell’impresa, fino a un livello più alto tipo se parliamo dei politici per i quali votiamo e che potrebbero avere interessi con una potenza straniera ostile. Tra questi due estremi è compreso un mondo, ovviamente».
La tua analisi parte dal 2016 e diventa attualissima con la guerra in Ucraina. La stagione delle spie, perché è importante parlarne oggi?
«In ogni Paese democratico le attività di intelligence sono lo specchio della politica, perché – banalmente – i servizi di informazione dipendono dalla Presidenza del Consiglio. Quindi, qualsiasi fluttuazione delle istituzioni si riflette sulle politiche di sicurezza del Paese. Vari sondaggi dimostrano – ma basta fare un giro in rete – che l’opinione pubblica italiana è particolarmente sensibile alla propaganda proveniente da Mosca, dove per propaganda intendo fake news. Per fare un esempio, siamo tra i popoli che più credono che il massacro di Bucha sia stato compiuto dagli stessi ucraini, che per una platea matura grida quasi vendetta. Provare a capire perché in Italia è stato possibile che gli agenti russi si muovessero con maggiore tranquillità rispetto ad altri Paesi ci dice molto anche sulla nostra politica».
Proviamo ad approfondire il tema. Tu leghi questo sviluppo delle attività di spionaggio al diffondersi del populismo: Trump, Brexit, i 5 Stelle. In che maniera La stagione delle spie si collega alla diffusione del populismo in Italia come in Europa o negli Stati Uniti?
«La cosiddetta fiammata populista non ha avuto una causa diretta rispetto all’incremento delle attività di spionaggio, o almeno non è un qualcosa di deciso a tavolino. La storia, però, ci insegna che la Russia – sin dai tempi dell’Unione Sovietica – ha sempre avuto interesse ed è maestra nel riuscire a deviare le politiche di un Paese attraverso idee di propaganda. Il ruolo di Mosca nelle elezioni presidenziali USA del 2016 è stato provato, così com’è stato provato il proprio ruolo attraverso i social network, la cosiddetta fabbrica dei troll. Allo stesso modo si è agito per la Brexit, o su un referendum interno in Olanda attraverso il quale il popolo ha bloccato una procedura europea che prevedeva la firma di un trattato che avrebbe reso i rapporti tra Ucraina e UE più stretti. A me interessa, però, raccontare le attività delle spie vere perché, se è certo che siamo nell’era della sorveglianza elettronica, esiste ancora, ed è anche fiorente, un approccio che potremmo definire vecchio stile, ma funziona e si riduce a gente che lavora in uffici dove passano informazioni riservate, che decide di collaborare con un avversario, ruba dei documenti e si incontra con un agente – in questo caso russo – e adopera uno scambio. Questa attività, in Italia, dal 2016 in poi, è cresciuta molto, tanto che sul nostro suolo si sono mossi agenti anche di altri Paesi».
Nel libro riesci anche a intervistare una spia. Perché una persona che lavora per uno Stato a un certo punto decide di tradire e collaborare con un Paese ostile come la Russia?
«Penso che il termine che adoperi, tradimento, sia adatto a descrivere ciò che accade. In inglese si usa un acronimo che è M.I.C.E., e racchiude le ragioni per le quali si decide di tradire: money, ideology, coercion, ego. Qualcuno ci aggiunge anche sex, ma spesso quest’ultima è collegata a coercion. Si collabora con uno Stato avversario, dunque, per denaro, perché si appartiene a un’ideologia diversa, perché si viene costretti e le forze avversarie sono in possesso di qualcosa di compromettente. Infine si tradisce per ego, perché ci si sente non abbastanza valorizzati sul proprio posto di lavoro. La posta in gioco può essere molto alta perché, come nel caso che tu citavi, la questione riguardava le politiche energetiche dei Paesi NATO nell’area del Mar Nero, il che dimostra che nel 2016 già si pensava a energie alternative a quelle di Mosca e quindi a cosa sarebbe accaduto se i flussi di gas russo si fossero interrotti in caso di un conflitto».
Perché in Italia si svolgono così tante operazioni di spionaggio? E, soprattutto, perché dal 2016 questo fenomeno è cresciuto in tal misura?
«L’Italia è centrale, ma ci tengo a precisare che non è l’unico Paese. Accade pressoché ovunque, è un’azione offensiva a tutto campo nei confronti dell’Unione Europea e della NATO, ma l’Italia ha mantenuto fin dai tempi dell’URSS una logica di dialogo con la Russia. Nello schieramento avverso eravamo quelli che dialogavano di più con il Cremlino. Questo, misto a una politica estera meno intransigente su tanti versi, ha determinato – soprattutto negli anni dei governi Conte – che l’Italia diventasse il luogo ideale per darsi appuntamento, correndo il minor rischio possibile. Non tanto perché il controspionaggio italiano non funzionasse, ma perché il clima politico era più favorevole».
Che intendi per governo favorevole? C’entra il legame tra le destre e la Russia?
«Ne La stagione delle spie racconto un caso, a mio avviso, eclatante: il caso Aleksandr Korshunov, ex colonnello della Federazione Russa che si presentava come un ingegnere aerospaziale e che era riuscito a corrompere dei colleghi di una controllata italiana, la General Electric Aviation, per avere accesso alle tecnologie che migliorano le prestazioni di veicoli sia di uso civile che di uso militare. Korshunov viene arrestato nel nostro Paese su mandato di cattura americano, dopodiché la stessa Russia emette un mandato con motivazioni speciose. A quel punto, l’Italia deve decidere se estradarlo negli USA o se restituirlo a Mosca. Considera che il danno procurato si aggirava intorno ai 6 milioni di dollari. Giuseppe Conte – allora Premier – e Alfonso Bonafede decidono, con un decreto del Ministero della Giustizia, di restituirlo a Putin, sostenendo che il danno subito dalla Russia fosse più grave. Successivamente, sono riuscito a scoprire che questa persona non è mai stata processata dal Cremlino, quindi, di fatto, la Russia puntava esclusivamente a riottenere un suo agente, il che per una forza politica come il M5S che dice di volersi opporre all’invio di armi è abbastanza contraddittorio, dal momento che parliamo di un trafficante di armi. Alla Casa Bianca, a quei tempi, c’era ancora Donald Trump, e lui ha avuto una posizione più che continua alla Russia. Credo che il calcolo politico fosse di non disturbare né l’una né l’altra forza, giacché Trump dimostrava di non avere intenzione di interrogare e catturare quell’agente, cosa che invece interessava alla FBI. Aggiungo che durante il Conte 2, le voci che dal PD si sollevarono contro quella operazione furono molto poche».
Ultima domanda: che relazione c’è tra La stagione delle spie e la guerra in Ucraina?
«C’è una relazione forte. Nel caso di Korshunov, le informazioni che cercava di ottenere erano per migliorare i veicoli russi con cui oggi sorvolano l’Ucraina. C’è sempre qualcosa che ha a che vedere con questa situazione».