Per il maestro dimenticato Ivan Illich, nato a Vienna nel 1926, la società conviviale è quella nella quale gli strumenti a disposizione della collettività sono vissuti e utilizzati da tutte le persone che ne fanno parte e non prodotti e controllati dagli specialisti della società dominata dall’ideologia dello sviluppo e della produttività industriale senza limiti. La convivialità, di conseguenza, è la libertà individuale che riesce di fatto a realizzarsi nel rapporto di produzione nell’ambito di strutture organizzate e dotate di strumenti efficaci a disposizione dell’intera società comunitaria.
Lo scrittore, filosofo e pedagogista austriaco, di origini croate, fu davvero un libero pensatore e cittadino del mondo, al di là della retorica con cui si usano queste definizioni. Negli anni Quaranta del secolo scorso, visse a Firenze e poi a Roma per studiare alla Pontificia Università Gregoriana della Capitale. Nel 1951, fu ordinato presbitero e, in seguito, fu vicerettore della Pontificia Università Cattolica di Porto Rico. Nel 1961, fondò il Centro Intercultural de Documentación (CIDOC) a Cuernavaca, in Messico, con il compito ufficiale di formare i preti e i missionari che operavano nel continente americano.
Dopo l’uscita dei suoi primi scritti, radicalmente critici nei confronti delle istituzioni moderne – soprattutto Descolarizzare la società (1971) e La convivialità (1973) –, nei quali partiva da una sorta di cristianesimo anarchico e anticipava riflessioni altermondiste e dell’ecologia politica, entrò in contrasto con il Vaticano e fu convocato per un chiarimento a Roma. Pur non ricevendo mai la scomunica, la sua presenza fu mal sopportata dalle gerarchie della Chiesa Cattolica, fino a quando decise di chiudere il CIDOC nel 1976.
Dalla metà degli anni Settanta, insegnò alla Facoltà di Sociologia dell’Università di Trento, costituendo un punto di riferimento anche per il movimento studentesco e, in seguito, viaggiò dagli Stati Uniti alla Germania, dove insegnò presso l’Università di Brema, continuando l’analisi critica e radicale delle forme istituzionali espresse dalla società contemporanea e opponendo a queste la sua concezione umanitarista all’insegna della convivialità. Si ammalò per una crescita tumorale al viso e morì nella città tedesca nel 2002.
La crisi planetaria evocata da Illich è provocata dalla sostituzione dello strumento tecnologico all’agire degli esseri umani, caratteristica dell’impresa moderna: nella triade uomo-macchina-società, l’uomo diventa schiavo della macchina e la società iper-industriale non rispetta più i limiti naturali, mentre l’iper-produttività diventa controproduttiva e genera la crisi economica, politica e sociale. Ne La convivialità – di recente riproposto in Italia dalla Red Edizioni, 2013 – Illich scrive che la società, una volta raggiunto lo stadio avanzato della produzione di massa, produce la propria distruzione. La natura viene snaturata e l’uomo è sradicato, castrato nella sua creatività. In effetti, con l’eccessiva specializzazione dei compiti, la conseguente istituzionalizzazione dei valori e la sempre più forte centralizzazione del potere, gli esseri umani sono diventati accessori della macchina globale e una rotella nell’abnorme ingranaggio della burocrazia. Infine, il pensatore austriaco denuncia che poco importa che si tratti di un monopolio privato o pubblico: la degradazione della natura, la distruzione dei legami sociali, la disintegrazione dell’uomo non potranno mai servire a uno scopo sociale.
In una società del genere, l’autenticità, l’intimità e la libertà degli uomini e delle donne viene negata dagli strumenti che ostacolano la convivialità umana. Dobbiamo riconoscere l’esistenza di scale e limiti naturali, continua Illich, perché la macchina non ha soppresso la schiavitù umana, ma le ha dato una diversa configurazione. Infatti, superato il limite, lo strumento da servitore diviene despota. Oltrepassata la soglia, la società diventa scuola, ospedale, prigione, e comincia la grande reclusione. Le scuole finiscono per confezionare l’apprendimento e la formazione, le diagnosi tecnologiche rendono in parte controproducenti le antiche pratiche dell’arte della cura e la comunicazione attraverso gli schermi, di fatto, allontana le persone.
L’alternativa a questo mondo dominato da un ambiente sempre più artificiale, dove gli esseri umani si trasmettono messaggi senza più realmente e affettivamente comunicare, è la società conviviale, intendendo per convivialità il contrario della produttività industriale e il passaggio dalla produttività alla convivialità è il passaggio dalla ripetizione alla spontaneità del dono. Quindi, passare dalla produttività alla convivialità significa sostituire a un valore tecnico un valore etico, a un valore materializzato un valore realizzato.
Più leggiamo le analisi contenute nella proposta libertaria per una politica dei limiti allo sviluppo di Illich, più ci accorgiamo che la storia economica e politica dell’intero pianeta sta andando nella direzione opposta perché una società che definisce il bene comune come il soddisfacimento massimo del maggior numero di individui mediante il maggior consumo di prodotti e servizi industriali, logicamente arriva a imporre il consumo e mutila in modo intollerabile l’autonomia della persona. Resta la consapevolezza della soluzione socio-politica alternativa della convivialità evocata da questo profeta inattuale della seconda metà del Novecento, che ci parla del bene come la capacità di ciascuno di modellare l’immagine del proprio avvenire, e siamo convinti che sia più che mai urgente la necessità del cambiamento che ci propone per la salvaguardia dell’ambiente naturale del pianeta e il futuro delle nuove generazioni che continueranno la storia dell’umanità.