Sembrava quasi una beffa del destino, uno scherzo di cattivo gusto, una barzelletta dal sapore britannico. Liliana Segre che apriva i lavori della nuova legislatura e Ignazio Benito Maria La Russa che le succedeva sullo scranno più alto di Palazzo Madama. Era la fotografia dei tempi che abitiamo, l’immagine più nitida della circolarità della storia tanto cara a Nietzsche. Quel giorno, il 13 ottobre scorso, nel centenario del mese che diede inizio alla dittatura fascista, il passato, già propostosi come tragedia, si ripresentava come farsa. Quel giorno, scrivevamo, i fascisti marciavano su Roma.
Non era una provocazione la nostra. La ricerca smodata di un titolo a effetto. Era la frustrazione del vedere una donna come la senatrice Segre, che più di molti sa quanto è costata questa Repubblica, lasciare il passo a chi quella Marcia, quella dell’ottobre del 1923, la commemora da sempre nel nome e persino tra le mura di casa. Una collezione di memorabilia – cimeli, bassorilievi, statue del duce – mai rinnegata (d’altronde, ci sono video e fotografie a testimoniare la fede di La Russa) a cui in questi mesi, facendo di necessità virtù, l’attuale seconda carica dello Stato ha tentato di offrire spiegazioni più disparate sperando di sminuirne il significato storico e simbolico.
Ma basta attribuire valore affettivo a un oggetto, come il celebre busto di Mussolini divenuto eredità di un padre che non c’è più, a ristabilire la normalità di una simbologia incostituzionale e del tutto inappropriata nell’appartamento del più alto rappresentante delle istituzioni italiane dopo il Presidente della Repubblica? No, certo che no.
Non a caso, nei poco meno di sei mesi a Palazzo Madama, Ignazio La Russa ha registrato diversi passi falsi, dimostrando la sua inidoneità nella copertura di un ruolo tanto importante quanto delicato. Quello che, sin dall’inizio, abbiamo sottolineato non dovesse spettare a lui, così come a nessuno di coloro che la sua storia politica e istituzionale ha sempre rappresentato. Oggi, a confermare questo timore, arriva non ultima la dichiarazione – infelice e menzognera – sulle vittime di via Rasella a cui fecero seguito i fatti delle Fosse Ardeatine. Ed è proprio da questi che si è scatenata la polemica.
In occasione dell’anniversario dell’eccidio, infatti, Giorgia Meloni ha parlato di italiani uccisi solo perché italiani, omettendo gran parte della storia. Ecco che, allora, è toccato al suo fido La Russa tentare di mettere una toppa, risultata poi peggiore del buco: «Quando lei dice “uccisi perché italiani” sa benissimo che quegli italiani erano stati uccisi per rappresaglia per quello che avevano fatto i partigiani a via Rasella […]. Tutti sanno che i nazisti hanno assassinato detenuti politici, ebrei, antifascisti e persone rastrellate a caso, ovviamente non gente che lavorava con loro».
La Russa, dunque, ha definito pretestuoso l’attacco alla Premier ma non si è fermato lì: «Via Rasella non è stata una pagina gloriosa della Resistenza. Quelli che i partigiani hanno ucciso non erano biechi nazisti delle SS ma una banda musicale di semi-pensionati, altoatesini (in quel momento mezzi tedeschi, mezzi italiani), sapendo benissimo il rischio di rappresaglia al quale esponevano i cittadini romani, antifascisti e non». Una reinterpretazione della storia inedita – si trattava del terzo battaglione del Polizeiregiment Bozen, appartenente alla polizia nazista e formato da reclute arruolate con la forza in Alto Adige – ma non inaspettata, che ha portato poi, nei giorni successivi, lo stesso La Russa a fare pubblicamente (ma solo in apparenza) un passo indietro.
A chi gli ha chiesto se celebrerà il 25 aprile, infatti, il Presidente del Senato ha risposto che festeggerà – in che modo non è dato sapere, attualmente escluso da commemorazioni ufficiali – come ricorda di aver già fatto in passato, da Ministro della Difesa, «portando fiori a tutti i partigiani, anche quelli rossi che, come è noto, non volevano un’Italia libera e democratica, ma comunista». È questo, dunque, che è la Liberazione per un garante delle istituzioni come la seconda carica dello Stato? Una festa di parte? Una festa divisa? Una festa rossa?
A lungo, la Resistenza è stata il ritratto degli italiani. Non più soltanto un popolo di poeti, santi e navigatori, ma anche di rivoluzionari, uomini e donne capaci di ribellarsi al padrone, di rovesciare il regime in nome della libertà, propria e di quella delle generazioni future. Oggi, invece, è soltanto un capitolo della storia del nostro Paese, l’ennesima vittima del revisionismo storiografico che tende ad alterare, per rimuovere, la certezza della verità storica al fine di costruirne una del tutto nuova, contraria e menzognera, funzionale, però, a cambiare il sentire comune. Il Presidente del Senato non ha fatto altro che avallarne gli intenti.
Lui, Ignazio Benito Maria La Russa, che ha sempre definito vergognosa l’ANPI, foglia di fico della sinistra, un’associazione che sfila con i centri sociali e fa comodo solo per tenere alto il pericolo di fascismo che, però, in Italia non c’è più. Lui che oggi siede a Palazzo Madama e, addirittura, può fare le veci del Presidente della Repubblica. A sua difesa, dopo tanto silenzio, Giorgia Meloni ha parlato di sgrammaticatura istituzionale. Ma cosa significa? Non siamo, qui, di fronte a una gaffe – entrambi mi perdoneranno il forestierismo – o a un fraintendimento. Può, dunque, la riscrittura del passato essere tollerata a un rappresentante politico? Ancora di più, può essere perdonata a chi ha giurato di onorare e difendere la Costituzione che da quel tanto sangue versato è arrivata a noi affinché fossimo liberi?
La Russa sostiene di rispettare la promessa di essere il presidente di tutti: «Penso che tutti mi riconoscano che svolgo il mio ruolo garantendo a tutti gli stessi diritti previsti dalle leggi e dai regolamenti parlamentari. Però questo non significa che io debba avere le idee di tutti, altrimenti non avrei idee mie». La Russa, però, sbaglia perché più di qualcuno – come chi scrive – non crede che stia svolgendo il suo ruolo come dovrebbe. Soprattutto, non crede nell’adeguatezza del valore politico che gli sta attribuendo, esprimendosi sui temi più delicati della vita del Paese, dai migranti alla maternità surrogata, deviando l’opinione pubblica.
Il Presidente del Senato non è un novello, esperto com’è di materia oratoria. Si è visto persino nel giorno del suo insediamento a Palazzo Madama, quando ha citato Pertini senza dimenticare patria, onore, forze armate e Regno. La Russa dal Fronte della Gioventù all’MSI, ad Alleanza Nazionale, al Popolo della Libertà, a Fratelli d’Italia. Dal 1994 in Parlamento, Ministro della Difesa, Vicepresidente del Senato, erede del duce, come goffamente – sempre, quando si tratta di doversi poi giustificare – ha dichiarato ad appena qualche settimana dalla sua nomina.
Lui, che nel discorso di insediamento non ha dimenticato di menzionare nemmeno Sergio Ramelli o che, nel 1973, partecipò a quello che viene ricordato come il giovedì nero di Milano, una giornata nella quale il Movimento Sociale Italiano diede vita a una manifestazione non autorizzata. Quel giorno, contro la violenza rossa, furono lanciate due bombe a mano che uccisero Antonio Marino, un poliziotto di appena 22 anni. La Russa, che ha definito quell’episodio «un trauma da cui faticammo a riprenderci», fu indicato come uno dei responsabili morali.
La Russa che, nel 2008, divenne difensore dei poliziotti della macelleria messicana, i torturatori della Diaz di Genova. La Russa, che nel 2020 chiedeva di dare un senso diverso al 25 aprile affinché diventasse una celebrazione delle vittime del coronavirus e di tutte le guerre. Perché è così che si muovono i negazionisti, facendo di tutta l’erba un fascio. E di fasci, lui, sì che se ne intende. La Russa che non dovrebbe essere Presidente del Senato della Repubblica italiana, vera sgrammaticatura istituzionale.