La scuola può uccidere. È questo il concetto – assurdo e doloroso – che dobbiamo stamparci in mente. La scuola può uccidere. Ha ucciso Giuseppe Lenoci e Lorenzo Parelli. Per mezzo di un’auto e di una trave d’acciaio, ma la mano era la stessa. Perché i due ragazzi avrebbero dovuto essere tra le mura scolastiche, protetti e sicuri, e invece erano già stati catapultati nel mondo del lavoro. La scuola-utero ha partorito prematuramente i suoi figli e altrettanto rapidamente li ha perduti. Venerdì, i loro fratelli si sono riversati – ancora una volta – nelle piazze e nelle strade di tutta Italia: più di quaranta sono le città occupate dagli studenti. Non diversamente dalle altre volte, sono stati accolti dai manganelli. Il Ministro dell’Istruzione, Patrizio Bianchi, si è affrettato a precisare che Lenoci – “Giuseppe” per gli amici e per il Ministro – stava facendo un percorso di formazione triennale, e non l’alternanza scuola-lavoro che ha ucciso Parelli.
A proposito di percorsi di sfr… ehm, formazione, il Parlamento Europeo ha appena bocciato due emendamenti a riguardo: il primo presentato dal gruppo socialista e il secondo da quello dei Verdi, che vietavano ai 27 Stati membri gli stage e i tirocini non remunerati. Proprio mentre gli studenti portavano la loro rabbia e il loro lutto in piazza, l’Europa ha scelto di ignorarli. Gli emendamenti potevano essere un segnale chiaro e preciso, una frustata alle mani avide delle imprese che ormai cercano reclute anche tra i bimbi in fasce. E, invece, il nulla. Nonostante le 1400 vittime che il 2021 ha mietuto tra le schiere degli operai, i minorenni vengono ancora spinti a partecipare a questo grottesco fantamorto.
Quando fu introdotta, l’alternanza scuola-lavoro venne sponsorizzata come l’unica soluzione per rimediare alla totale assenza di connessione tra il mondo dell’istruzione e quello dell’impiego. E allora sviluppiamola bene questa connessione, è giusto che i ragazzini imparino certe cose sin da subito. La schivata della lastra d’acciaio, il salto fuori dall’auto, la camminata in bilico sul ponteggio: skills fondamentali da inserire nel curriculum. Sono delusa, mi chiedo come sia possibile scivolare fino a questo punto. Dove è finita la crescita personale e la creazione del pensiero critico? Sono bastati dei tagli e una pessima riforma per trasformare la scuola in azienda? In realtà, secondo Ivan Illich, storico e pedagogista austriaco, il problema è molto più risalente e complesso. Deschooling Society è un saggio del 1971, ma nel 2022 ritorna a essere cruciale. Dopotutto, pochi anni dopo i Pink Floyd rilasciarono l’inquietante video di Another Brick In The Wall (Part 2), urlando al mondo quanto l’educazione a quel tempo non fosse altro che un altro step per portare all’omologazione e all’uccisione dell’individualità dei ragazzini.
Ivan Illich non ci va meno pesante, aprendo il suo saggio col concetto che né la parità né l’apprendimento possono essere promossi nelle scuole se gli educatori insistono nel fondere l’istruzione con la certificazione. Le scuole da sempre cercano di spezzettare l’apprendimento in “materie” disconnesse tra loro, in piccoli mattoncini prefabbricati che andranno a costruire il curriculum dello studente, certificabile perché rispetta gli standard ministeriali. Gli studenti che accettano standard altrui per misurare il loro apprendimento e la crescita personale si abitueranno a ragionare loro stessi per voti, diplomi, lauree. Non dovranno più essere rimessi al loro posto, perché si inseriranno volontariamente negli slot che gli sono stati assegnati, si strizzeranno e rimpiccioliranno per entrare nella nicchia che hanno imparato a conoscere e, in contemporanea, tenderanno a fare lo stesso con i loro compagni, finché tutti non saranno al loro posto.
È anche chiaro come queste certificazioni attestino più la durata di tempo passato nel mondo dell’istruzione che l’acquisizione reale di competenze. E, dato che un anno all’università è sproporzionatamente più costoso di uno alle medie, il tempo che uno studente può dedicare all’apprendimento dipende dalla ricchezza della sua famiglia. Inutile parlare di borse di studio quando, per alcuni, il tempo per provare il proprio “valore” neanche c’è: forza, fila in fabbrica a sedici anni, forza, via all’alberghiero, così puoi già lavorare in estate. Anche quando è accompagnato da un declino dei contenuti – basti pensare ai master che hanno a oggetto la gestione aziendale – l’aumento del costo dell’istruzione incrementa a prescindere il valore di uno studente agli occhi del mercato. La scuola universale doveva essere in grado di separare il futuro di un alunno dal suo presente, di dare a tutti le stesse possibilità di farcela. Invece, ha solo catalogato il mondo in un sistema internazionale di caste.
Quando uno studente non si comporta secondo le predizioni del mercato, non ottenendo i voti e i certificati necessari a inserirsi nella categoria lavorativa che è stato convinto di desiderare, verrà visto come un fallito. Per non parlare di chi non conclude il ciclo di studi che ci si aspetta da lui. Non mi sorprende che l’altra faccia delle vittime dell’istruzione sia quella degli universitari che, sempre più numerosi, si tolgono la vita perché non riescono a soddisfare le aspettative. A questi individui viene tolto il rispetto per loro stessi, perché sono stati convertiti a un credo che assicura la salvezza solo mediante l’istruzione. L’università, avendo il monopolio sia delle risorse per l’istruzione sia dell’investitura per i ruoli sociali, assorbirà anche l’innovatore e il potenziale dissenziente, insegnando pure loro a desiderare un mondo che ne metta in evidenza il prezzo.
La scuola inizia i giovani a un mondo dove tutto è misurabile, compresa la loro immaginazione. Viene automaticamente catalogata come “buona” perché inculca il sapere, a prescindere da come lo stia facendo. Chiunque voglia lanciarsi in un percorso da autodidatta, invece, verrà screditato. Di conseguenza gli studenti vengono pre-alienati, abituati al mondo del lavoro attraverso la convinzione che hanno bisogno di essere comandati e indirizzati. Facendo abdicare ai ragazzi la responsabilità per la loro stessa crescita, l’istruzione standardizzata porta al suicidio spirituale.
È così che si arriva all’impotenza psicologica che attanaglia la mia generazione, la paura verso ogni iniziativa autonoma che esce fuori dai binari e non dà sicurezza. Le burocrazie degli enti assistenziali rivendicano il monopolio professionale, politico e finanziario dell’immaginazione sociale, fissando i criteri mediante i quali si deve stabilire se una cosa è valida e fattibile. Mai la lotta contro l’ignoranza e la povertà ha condotto a una tale situazione di frustrazione e incapacità di provvedere a se stessi. E ora, che finalmente i più giovani – forse una generazione più sveglia della mia – si sono riversati nelle strade per rivendicare l’autodeterminazione delle attività di formazione professionale, vengono respinti violentemente dalle autorità. Eppure, stanno solo chiedendo di potersi dedicare interamente allo studio, non di abbandonarlo.
Le nostre opzioni a questo punto sono chiare. O continuiamo a credere che questa sia l’unica struttura scolastica possibile, ci nascondiamo dietro alla facciata del tempio del sapere e giustifichiamo ogni cosa, o facciamo un passo oltre. Ritengo che tanti insegnanti, appassionati al loro ruolo, sarebbero disposti a rivoluzionare i loro metodi. Ma una delle più gravi crisi del nostro secolo, è quella dell’immaginazione: siamo così assuefatti alle istituzioni in cui siamo cresciuti che non riusciamo a visualizzare una vita senza di esse. Una società senza scuola viene immediatamente vista come analfabeta, ignorante, sottosviluppata. Ma la scuola che conosciamo oggi non è l’unico tipo di scuola possibile né risulta quella ideale: è solo il frutto della società capitalista in cui ci troviamo e in cui potremmo non trovarci domani. Tutto ciò che è un fenomeno umano non è immutabile ma, in quanto umano, ha un suo inizio e una fine. I ragazzi che si trovano oggi in piazza saranno coloro che daranno forma al futuro, non la gente seduta al Parlamento Europeo.
Illich, nei capitoli finali del libro, avanza idee e proposte per una rivoluzione scolastica. Lo fa sulla base di ricerche pedagogiche del tempo, che oggi si sono moltiplicate. E lo fa alla luce di un mondo che non aveva ancora visto il progresso tecnologico attuale, che può essere uno strumento di conoscenza senza paragoni nella storia dell’uomo. Internet incoraggia un uso aperto ed esplorativo del sapere, lo scambio non autorizzato delle capacità tecniche, nonché illimitate possibilità di incontro tra persone che vogliono imparare e altre che hanno competenze. Per concepire una scuola universale non asservita al mondo del lavoro, stimolante socialmente e intellettualmente, abbiamo bisogno di tutto questo e altro: della possibilità di un apprendimento fine a se stesso, di insegnanti disposti a essere guide e non giudici, di conoscenza che fluisce senza barriere e discriminazioni. E abbiamo bisogno di parlarne, adesso. Prima di uccidere anche questa generazione.