Che la stagione politica inauguratasi con le scorse elezioni del 25 settembre sarebbe stata una delle più estremiste degli ultimi anni, forse di sempre nella storia della Repubblica, non era in discussione. Che le forze parlamentari della maggioranza avrebbero, però, occupato le poltrone principali, affidando la seconda e la terza carica dello Stato a personaggi così divisivi e per niente moderati come Ignazio Benito Maria La Russa e Lorenzo Fontana, era uno scenario lecito da escludere, se non altro per dimostrare apertura verso le opposizioni in un momento così drammatico per il Paese, anche considerando che, fino ad appena quindici giorni fa, governavano tutti assieme allegramente sotto la bandiera di Draghi.
E invece no, Giorgia Meloni e Matteo Salvini hanno pensato a raccogliere l’uovo deposto oggi dalla gallina di cui avrebbero potuto aver fame domani. La scelta di affidare Camera e Senato ai sopracitati Fontana e La Russa è un chiaro messaggio ai rivali, e al Paese tutto, una dichiarazione d’intenti che abbatterà la propria forza sull’unica cosa su cui i padroni della NATO non oseranno mettere bocca, i diritti civili.
La partenza della XIX legislatura è la peggiore possibile, con i profili più estremisti in forza a Fratelli d’Italia e Lega che non rappresentano tutti i cittadini di cui dovrebbero essere garanti, ma neppure la maggioranza, dal momento che le scelte adoperate per Montecitorio e Palazzo Madama hanno un non troppo velato intento discriminatorio verso diverse categorie: le donne, la comunità LGBT, gli immigrati. La maggioranza dimostra che il senso delle istituzioni per cui hanno sempre invocato integrità e protezione non è qualcosa che riguarda il loro spettro morale.
Il Segretario del Partito Democratico, Enrico Letta, l’ha definita una logica incendiaria, un metodo davvero sbagliato, ed è impossibile non fermarsi a ragionare sulle parole dell’ex Premier soverchiato nel 2014 dal fuoco amico di Matteo Renzi. Si rompe, così, ogni possibilità di un rapporto tra maggioranza e opposizione.
È incredibile, infatti, che Giorgia Meloni e Matteo Salvini abbiano deliberatamente deciso di escludere da qualsiasi discussione le forze dell’opposizione con cui, in caso di probabilissime crisi di governo o economiche che arriveranno a complicare la strada, avrebbero potuto comporre un nuovo esecutivo di scopo – ovviamente a trazione FdI-Lega – per approvare riforme, manovre finanziarie e tutto quanto ci hanno sempre fatto ingoiare in nome della responsabilità.
La maggioranza di centrodestra ha già dimostrato la propria precarietà in occasione della proclamazione di Ignazio La Russa al Senato, con l’aiuto esterno dei franchi tiratori probabilmente in seno al MoVimento 5 Stelle che si è reso necessario affinché Giorgia Meloni potesse alzare la voce anche nei riguardi di Silvio Berlusconi, sintomo non solo di grande instabilità, ma anche di una cronica malattia della politica di casa nostra che sempre dipende dal tatticismo di chi deve già essersi promesso al carro dei vincitori in caso di necessità.
Tornando alle elezioni di Ignazio Benito Maria La Russa e Lorenzo Fontana, la destra ha adoperato scelte che mirano a spaccare il Paese anche sul piano sociale, e le rimostranze andate in scena nella Capitale durante il weekend testimoniano il clima teso su cui FdI e Lega hanno chiamato le forze estremiste di entrambe le fazioni a confrontarsi.
Perché se l’opzione La Russa – come l’ha magistralmente dipinta il Presidente della Regione Campania, Vincenzo De Luca – è il risultato di un’operazione di scillipotiana matrice da parte di Giorgia Meloni, dunque una mossa politica di abilità e opportunismo, non si può dire altrettanto dell’arroganza leghista nel mettere a dirigere i lavori di Montecitorio un ultracattolico con la camicia verde cucita sulla pelle.
Il veronese è il pegno che Matteo Salvini ha pagato al Nord che l’ha creato e ora mirava a sostituirlo in favore del moderato Giorgetti o – come sogna la base e la maggior parte della popolazione padana – di Luca Zaia, vera bandiera del Settentrione che intende riprendersi il ruolo di guida politica, economica e industriale del Paese. Fontana è una dichiarazione di guerra al Sud, alla sua economia già in crisi, alle donne, ai loro diritti, alla comunità LGBT.
Anche nei loro discorsi d’insediamento, La Russa e Fontana hanno marcato le differenze che ne distinguono il peso, e non solo perché il primo ha tenuto il palco del Senato senza mai leggere dagli appunti, brillando come una rockstar, mentre il secondo non ha alzato mai la testa dai fogli che leggeva a fatica, ma perché l’avvocato di Paternò ha lavorato con mestiere citando Pertini come suo mantra e addirittura invocando dignità per qualsiasi rifugiato tra i confini italiani (certo, purché fuggito da guerra – come da tradizione sovranista). Fontana, invece, attento a recitare il copione scritto per l’occasione probabilmente da Bossi, ha – di fatto – proposto il suo show come fosse sul palco di Pontida, rimarcando le differenze, invocando le autonomie regionali, insomma, esibendosi in tutto quanto il suo ruolo imparziale non avrebbe dovuto.
La XIX legislatura getta immediatamente la maschera, anzi nemmeno la veste. La nomina dei Ministri, nei prossimi giorni, chiarirà il ruolo di Forza Italia all’interno della coalizione e, dunque, anche le posizioni ambigue di Terzo Polo e alcuni elementi del MoVimento, accusati già persino dal leader Giuseppe Conte. Ciò che sembra già certa è la virata drammatica verso politiche che non guarderanno agli interessi di tutti, che non si cureranno delle differenze, semmai si si impegneranno ad ampliarne la distanza, è il legame a cui questo esecutivo si è già costretto per non naufragare di fronte alle difficili manovre a cui sarà chiamato.
È solo l’inizio, e già vien voglia di guardare oltre il tunnel, con la speranza che alternative popolari di pace e uguaglianza vogliano emergere e proporre una reale opposizione tra la popolazione.