Il mondo è ugualmente illuminato, sul piano spirituale, sulla prostituzione, ma non vuole fare nulla al riguardo dal momento che il piacere sessuale che permette agli uomini è ritenuto molto più importante del dovere di assicurare alla donna lo stesso trattamento nel genere umano. – Rachel Moran, Stupro a pagamento
Esce per VandA Edizioni, nella collana Biblioteca femminista, un libro di grande spessore speculativo, Religioni e prostituzione. Le voci delle donne, a cura di Paola Cavallari, Doranna Lupi e Grazia Villa, che si interroga sulle radici storiche e politiche della prostituzione femminile e sulle varie prospettive delle religioni su questo tema.
La ricerca parte dal convincimento della necessità di considerare le donne prostituite e le sopravvissute alla prostituzione come massime esperte in materia di sfruttamento sessuale. Avendo vissuto in prima persona la violenza di sfruttatori e prostitutori, non possono essere ridotte a un oggetto passivo di analisi intellettuale, ma sono a tutti gli effetti i soggetti politici che chiedono di essere ascoltati. L’impegno delle autrici è quello di amplificarne la voce. Il loro lavoro inizia dalla constatazione di come le istituzioni religiose possano essere anch’esse “portatrici di stupro simbolico”, promuovendo modelli patriarcali di relazione tra i sessi che si radicano nel trascendente, attraverso teologie e interpretazioni dei testi sacri, pensate e scritte solo da uomini, che rafforzano stereotipi e luoghi comuni.
La ricerca principia da una disamina delle fonti, dal riferimento al testo sacro, dalle diverse tradizioni, dagli insegnamenti, dalle storie tramandate per poi passare a excursus storici fino ad arrivare all’innesto tra religioni e prostituzione nella realtà odierna, affrontando anche l’impatto con le diverse legislazioni esistenti e i rispettivi modelli (regolamentarismo, proibizionismo, abolizionismo, modello nordico) nei paesi con maggioranze delle differenti religioni trattate.
Viene affrontato il problema del moralismo e della condanna della colpevolizzazione della prostituta, si va dalla vergogna come cancro psicologico della prostituzione, come dice Paola Cavallari, nell’introduzione, fino alla diversa valutazione dell’atto negativo se la donna non prova desiderio e piacere nel prostituirsi, tesi di Maria Angela Falà, nel capitolo dedicato al buddhismo; dalla constatazione che l’ebraismo, pur non riconoscendo alla professione di prostituta/o un ruolo dignitoso o morale, di fatto non vi riconosce un crimine come il furto o l’omicidio, dichiara Sarah Kaminski, e scrive Lidia Maggi che il corpo è stato posto fuori scena fino a diventare osceno.
Le chiese e le comunità religiose hanno zittito il racconto della prostituzione oppure hanno rafforzato una narrazione misogina e funzionale alla visione patriarcale. La filosofa Valentina Pazé in Libertà in vendita. Il corpo fra scelta e mercato ha rimesso al centro la necessità di collocare il corpo fuori dal mercato, di indagare sulla possibile libertà di rinunciare alla libertà, su che cosa viene prima di un’azione libera, sulla differenza tra libertà di agire e di volere e sulla impossibilità di definire la prostituzione come professione.
La prostituzione non è un lavoro, vendere il proprio corpo non è una cosa a cui ci si può abituare, significherebbe accettare un processo di disumanizzazione che trasforma la persona in oggetto, la donna in merce, peggio in una schiava. Il movimento delle donne non mira a riformare il patriarcato, ma a trasformare loro stesse, scrive Mary Daly. Le testimonianze delle sopravvissute, le fuoriuscite dalla prostituzione, parlano un’altra lingua, gridano una verità altra da quella propagandata dagli assetti massmediatici e dall’impianto culturale complessivo. Ascoltandole senza prevenzione ma con uno sguardo empatico, si comprende come il sistema dominante sesso-potere-denaro vuole indurci a tenere gli occhi chiusi.
La tragedia che esse hanno vissuto ci sconvolge profondamente. Immaginiamo i loro corpi sfregiati, devastati, vilipesi, torturati, stuprati, i corpi con i segni di compagne di strada ammazzate impressi nella carne, come quelli dei tentati suicidi e pensiamo: ma di quale libertà stiamo parlando? Denunciare la servitù della prostituzione, peraltro, è un saggio esercizio di difesa secondo il diritto sessuato. Si intreccia al saper riconoscere le tante “illibertà” interiorizzate nel corso dei secoli, all’annunciare la forza della presa di parola pubblica e della “riappropriazione di esistenza” di cui le donne hanno guadagnato consapevolezza.
Denutrizione, miseria, privazione di casa e altri disagi fisici e psichici sono il terreno di coltura della devianza, ma prima di distruggere succhiano ogni energia, paralizzano, tanto più se preceduti da anni di esposizione all’offesa, al sopruso da parte degli adulti, ad abusi, maltrattamenti, strappo dei contatti col resto del mondo, crepe, lacerazione dei legami familiari. Questi gli inferni che demoliscono, giorno dopo giorno, anno dopo anno, chi sceglierebbe la via del “vendersi”.
Un’altra tattica per normalizzare la prostituzione è il tentativo di dividere le donne prostituite in due gruppi: quelle che si suppongono “libere” e quelle che sono “forzate”. Con forzate ci si riferisce a coloro che sono state schiavizzate fisicamente, che sono state imprigionate, spesso, detenute con la forza, violentate dai loro sfruttatori e poi vendute come carne sessuale a una folla di sconosciuti. E la categoria di libere si usa per indicare quelle donne che si suppone abbiano esercitato il loro libero arbitrio e siano felici di quello che fanno. Questa falsa libertà si basa su una disunione con il corpo, su un’ideologia di individualismo proprietario acquisitivo, da cui discende il disporre del proprio corpo, interpretato come “bene economico a disposizione”, strumento inscritto nell’orbita della merce: la dissociazione tra mente e corpo.
Il marketing nel segno del patriarcato è vastissimo, non confinato certo al campo del sistema prostitutivo/pornografico, benché sia un’industria tra le più floride del mondo, insieme all’industria dietetica, cosmetica, chirurgia estetica, moda e affini. Davanti ai nostri occhi c’è la forza schiacciante dell’ideologia del mercato, del neoliberismo, del sessismo. Alessandra Bocchetti scrive: E quando mi si dice che una donna è libera di fare del proprio corpo ciò che vuole, comincio a pensare che l’idea di libertà abbia iniziato a partorire mostri.
L’industria del sesso nasconde, mistifica e oscura la relazione gerarchica tra chi ha il potere di comprare e chi invece subisce il ricatto, mascherato da libera facoltà di vendere o dal libero consenso. A essere “comprate” sono le parti intime di un corpo. Ingeborg Kraus, psicanalista, attivista nel contrasto al sistema prostitutivo, scrive che la prostituzione può essere praticata solo in una situazione di dissociazione patologica. Per difendersi dalla disumanizzazione, la dissociazione diventa allora indispensabile. L’uso di droghe, alcol e anestetici locali, le iniezioni locali di lidocaina svolgono tale funzione e sono incentivati dai manager.
Le tesi di Marx ed Engels dichiarano: le donne prostituite, così come le ingiustizie perpetrate dai maschi sulle donne, sono un effetto dello sviluppo capitalistico, scompariranno con la rivoluzione comunista. Ma questa utopica affermazione non si è realizzata, anzi il corpo delle donne continua a essere oggetto di abuso, di violenza di maltrattamento, corpo/bottino di guerra nelle battaglie, corpo/oggetto mercificato per il piacere dei paschi, corpo mortificato e scisso dai diritti della persona. Questo saggio sarà sicuramente uno strumento fertile di discussione e di confronto, utile per un salto qualitativo nell’affrontare un tema tragico e divisivo.