Con Pane del bosco edito da Einaudi, Chandra Candiani continua a costruire quel mondo poetico in cui ognuno di noi può cercare riparo. Rimane in contatto con ciò che resta dentro di lei di quello stupore dei bambini che guardano la realtà. Ogni sua parola viene purificata da questo sguardo diverso, fragile e potente. Ogni parola viene ritagliata dal ritmo particolare della sua voce. La parola poetica che non salva ma nomina il mondo e reca pace, solleva da ogni miseria, da ogni violenza, da quella maldicenza sciatta che ci appartiene. Ogni parola diventa così un tempio sacro a cui Candiani porta in dono la pazienza dell’ascolto, l’amplificazione delle emozioni.
Il fare poesia può diventare allora preghiera corale. Dice: Abbiamo fame di parole vive, fame di parole/ scatole per contenere l’immaginazione e i suoi fantasmi, parole capaci di affrontare la morte, la paura della morte. Imparare a farsi piccoli come i bambini, con gli ultimi della terra, con gli oppressi, con quelli che non hanno voce. La voce femminile entra nel bosco con accanto due animali, un lupo e un puma. Chiede protezione e legge la cura, impara a fare a meno delle parole, chiede silenzio.
Lupo e puma/ proteggono la parola/ scintillata nel bosco./ Lei si inoltra/ a liberare i custodi del nome/ dimenticherà i padroni delle parole,/ sarà belva/che mangia quieta la furia./ È tempo di disarmo,/ instabile come una scia,/ lei da dire “Fammi luce”.
La parola “bosco” ritorna incessante in ogni pagina, è il luogo simbolico di ciò che non è stato addomesticato dagli uomini. Il bosco è la selva, si contrappone al concetto di giardino, uno spazio antropomorfizzato dove la natura è piegata al disegno umano. Una geometria che si incarna nel collocare ogni elemento in una configurazione chiusa e recintata, razionalizzata. Il bosco e la foresta, invece, sono l’incarnazione vegetale della natura non addomesticata né addomesticabile. Una natura selvaggia che si identifica con il femminile sacro non colonizzato dal patriarcato sacerdotale.
La donna selvaggia della psicanalista Clarissa Pinkola Estess abita la foresta. La strega e la fata sono presenze magiche e guaritrici del bosco. Lo spazio aperto e libero della selva si oppone al concetto di oikos, spazio che mura il corpo della donna. La selva, infatti, corrisponde al movimento libero del corpo della donna, luogo nomade che si sposta di continuo. Non ha confini e non può essere sottomesso alla volontà umana. La foresta è il luogo di ciò che non può essere colonizzato. Il corpo della donna cammina e crea una danza a piedi nudi. Una danza di parole che cantano. Ogni spazio immaginato e narrato ha un vissuto simbolico da decifrare, che libera.
Il bosco ha preso il posto di un uomo/ il bosco ha preso il posto di una donna/ ha preso il posto del gruppo/ di persone in piedi/ e di un gruppo di persone sedute./ Nel bosco puoi camminare e anche aggirarti/ puoi osservare acutamente o restare sospesa/ a una non rumorosa distrazione/….
Seguendo la direzione stilistica del suo saggio, questo immenso non sapere, la poesia qui prende un tono prosastico. Spiazza nel suo farsi racconto filosofico in versi, semina nell’anima un senso di potenza, di centratura psicologica che rende più forti, più consapevoli della nostra fragilità. Può essere una forma di analisi, perché cura la sfiducia negli esseri umani.
Ogni verso rende sopportabile la solitudine, crea un varco di comunicazione con la natura, con le presenze vegetali e animali del mondo. Vuole riparare allo strazio devastante del nostro tempo. Meditare e ascoltare le cose del mondo, essere presenti con grazia. La sua forza interiore vuol dire anche saper ringraziare, dare valore a ciò che ci ha attraversato.
Dichiara: Le parole che mi hanno curata sono “sentire”, imparare a sentire è un modo di conoscere il mondo. Un’altra parola è “accogliere” farsi ampi, vasti, per aprirsi al mondo. Apertura, gatto, animali bambini e bambine, parole che nominano esseri che non lo fanno apposta. Il dolore degli altri ha orientato la parte prima della mia vita. Tanta sofferenza e tanta possibilità di uscire dal convenzionale, decifrare e reggere il dolore degli altri, portare con grazia il dolore della mia famiglia. La meditazione mi ha aiutata a sentire il corpo da dentro, ad avere cura di me come ho curato mia madre. Ho attraversato il dolore e sono andata verso la gioia , attraversando il buio fino a vedere la luce.
Ogni verso esplode dentro e crea straniamento. Chandra Livia Candiani disarma per la sua innocente meraviglia. La meditazione poetica diventa disciplina, memoria del corpo, allenamento quotidiano e perseverante, ricerca spirituale, esercizio mistico, silenzio contemplativo. Cura il bisogno di sacro, di piccolo, di non arrogante. Testimonia ogni suo verso questa sensibilità acutissima alle parole, alla vibrazione che le parole portano con sé: come un musicista che sta in mezzo agli stonati. Crudele cinico e sbadato stridore che fa star male.
Tu sei a casa/ seduto alla scrivania/ e sei il mio capriolo./ Nel bosco c’è la neve/ e sotto la neve cammino/ e sotto la neve il tempo/ si incanta./ Per i tuoi grandi occhi di legno,/ quercia rossa, per il tuo muschio/ sul petto e le pantofole di neve/ sulle radici,/ pur così alta e così magistrale,/ so che dormi/ e vengo senza rumore di domanda/ a farmi per te carezza.
Scrive Paul Celan: Una poesia è un dono fatto agli attenti e implica destino. In ogni verso c’è attenzione alle creature, si registra la connessione profonda con il creato, non si mettono muri e barriere ma si abbandona al solo esistere. Si supera la fortezza della propria individualità. La meta esistenziale di Candiani è sentire il respiro del mondo e abbandonarsi alla sua onda. Non si fugge dalla sofferenza ma dal dolore si passa alla vicinanza, a sentire la bellezza come risarcimento profondo. Un’ecologia poetica pervade ogni suo libro. Esprime il bisogno di abbattere tutte le barriere tra gli esseri animati: alberi, animali, vegetali, maestri silenziosi dello stare al mondo. Nei suoi versi, ogni vivente prende il suo spazio, diventa interlocutore privilegiato, ispirazione poetica.
Essere amata da un bosco/è una lunga strada/ per stare al mondo:/ fare di sé omaggio/ decapitare i pensieri/ lasciare i sapienti,/ zoppicare e balbettare/ rinascere vegetale/ un battito un fruscio/ il tempo che si fa vento/ e nessuna malevolenza/ quando la perdita/ allaga il petto.
Versi brevi, scattanti, fulminanti intorno ai campi semantici affrontati. La vita fragile e selvaggia è lo sfondo della sua ininterrotta conversazione poetica. Il suo panismo ecologico si intreccia alla sua voce essenziale e magnifica. Bisogna trovare il modo di camminare da soli, liberandosi da ogni pensiero, dalla dipendenza dall’approvazione altrui, dall’ipertrofia dell’ego. Così la poesia invita alla sovversione.
La parola “amore” si è ammalata, ne abbiamo abusato, va curata, dice Thinh Nhat Hanh, monaco buddista, uno dei maestri spirituali di Chandra. Amore e dolore, abbandono e riparazione, binomi importanti nella poetica di Candiani. Esiste un potere trasformativo nel farsi piccolo, nel farsi minuto perché aiuta a sentire la radicalità, le radici dell’essere. Saper vedere la periferia, praticare la meditazione per vedere i piccoli fiori gialli sul sentiero, mentre camminiamo.
L’importanza di sé distrae dal centro delle cose. L’egocentrismo imperante, il narcisismo che induce a una bulimia della visibilità mediatica rende la meditazione poetica qualcosa di indecifrabile. L’io produce pensieri ossessivi che distraggono dall’essere al mondo, senza chiedere niente altro che esistere, essere senza avere, senza accumulare maschere e bottini di guerra.
Dormo come un cane/ avvinghiata a me stessa./Lascio la casa/ senza ragione/ come un essere senza peso/ vado perché devo/ sradicata e nello sperdimento/ un’abbreviazione di me./ Gli alberi chiamano:/ andare/ il perché non lo so/ ma gli alberi chiamano./ Ho i piedi nel fango/ la saldezza scivola/ nella flessibilità. / Qualcuno mi tiene/ come si tiene la piuma/ di un pettirosso.
Lasciarsi andare alla vita. C’è un fil rouge in tutti i libri di Candiani, diventano un’unica opera poetica. Il non sapere infatti è generativo, è produttivo, non è ignoranza, significa abbandonarsi alla vita. Significa sapere che la vita fa qualcosa di noi. Strategia di sopravvivenza è la scrittura dell’attimo. La voce narrante non è mai ferma ma cammina piano, con estrema lentezza, consapevole di ciò che esiste intorno. Ascolta il rumore sottile della natura che cambia, che vive e muore, che si rigenera, con compassione. Lasciarsi sedurre dalla bellezza, arrendersi indifesi e nudi. La poesia è solo un gesto minimo di ascolto, atto di rivolta. candiani