È il 3 maggio 2014. Migliaia di tifosi si riversano a Roma. Nottata in autobus, palpebre pesanti, ma una volta varcati i cancelli dell’Olimpico la fatica non si sente più. L’aria è elettrica, c’è la finale di Coppa Italia tra Napoli e Fiorentina. Un corteo di tifosi napoletani sta sfilando per viale Tor di Quinto scortato dalla polizia: sono pronti a urlare fino a perdere la voce, a sventolare in alto sciarpe e bandiere azzurro cielo. Ma, di colpo, un gruppo di uomini incappucciati assalta le forze di polizia. Rovesciano due auto e un blindato, il caos si scatena nel corteo. Si sente uno sparo. Poi, rapidi altri sei.
Un corpo resta a terra. È quello di Ciro Esposito, tifoso napoletano di trentun anni. Conosciamo tutti il resto: l’ambulanza che corre verso l’ospedale, la partita giocata comunque (ma con quarantacinque minuti di ritardo), “Genny ’a Carogna” che urla dagli spalti, le trattative tra la polizia e gli ultras. Ciro muore dopo cinquanta giorni di agonia e il suo assassino, Daniele De Santis (ex ultrà giallorosso) viene condannato a ventisei anni di detenzione. Ciro diventa, purtroppo, un simbolo: quello della violenza ultras.
Risse, fumogeni, coreografie, bandiere che sventolano. Urla, coltelli, armi da fuoco. Quello ultras è un mondo che non ho mai capito. In realtà, non ci ho neanche mai provato: non sono una tifosa, e per questo mi è già difficile comprendere l’attaccamento verso una maglia, dei colori e un nome scritto sugli stendardi. Non conosco l’angoscia dietro a un calcio di rigore, l’entusiasmo dei mondiali, la rabbia per un ennesimo fallimento. Figuriamoci quando questi sentimenti si trasformano in un credo, in una vera e propria fede.
Ho sempre pensato che il calcio fosse solo un pretesto, una scusa che uomini violenti utilizzano per sfogare la loro rabbia repressa. Vedevo i gruppi ultras come branchi di scimmioni senza controllo che la domenica decidono di mostrare la loro tracotanza di fronte a milioni di persone: senza scopo, senza raziocinio, solo istinti bestiali. Questo, fino a Non Plus Ultras. Dopo la scomparsa di Ciro Esposito, due artisti – Adriano Pantaleo e Gianni Spezzano – hanno sentito il bisogno di capire, di indagare i meccanismi del tifo organizzato. Dopo quattro anni, nasce un monologo incentrato su un’unica parola: mentalità.
Come ogni fenomeno sociale, la tifoseria organizzata si basa su meccanismi psicologici, rituali e regole ben precise. La mentalità è infatti un codice non scritto di norme comportamentali e un tifoso viene – o non viene – considerato “un vero ultras” solo se le rispetta. Innanzitutto, non seguire il calcio né per moda, né per denaro: il tifo non è solo un passatempo o un qualcosa da rispolverare se la propria squadra vince uno scudetto. È un vincolo forte come un matrimonio: essere fedele sempre, nella gioia e nel dolore, nella salute e nella malattia. E di amarti e onorarti tutti i giorni della mia vita.
L’ultras lo è sette giorni su sette. Partecipa alle riunioni del proprio gruppo, organizza trasferte e autofinanziamenti, passa mesi a provare cori e coreografie spettacolari da eseguire in curva. È una vita dedicata a una causa e spesso richiede il sacrificio di legami, affetti, lavori stabili e scalate sociali. Si sceglie consapevolmente il rischio di essere arrestati, diffidati, costretti alla firma in questura ogni domenica. La vita ultras obbedisce a quell’imperativo cristiano al quale i fedeli non sono mai riusciti ad aderire davvero: lasciate tutto e seguitemi.
Quello ultras è vero credo, ma qual è il suo dio? In uno dei vecchi forum ultras che venivano usati prima delle chat e dei social più moderni, mi sono imbattuta in un post dedicato all’elencazione dei punti fermi della mentalità. Con un tono degno della rivelazione dei dieci comandamenti al popolo, un utente affermava che la seconda regola fosse tifare prima di tutto per la Maglia e la Squadra, e se i giocatori dimostrano di meritarla impegnandosi e onorandola, tifare infine anche per i giocatori (i giocatori passano, la maglia resta). È la maglia a essere il vero simulacro divino, non i calciatori, non gli allenatori, non la federazione.
In Tifare Contro di Francesio Giovanni, si dipinge un mondo del calcio trasformato: c’è sempre meno passione e sempre più business, sempre meno sport e sempre più marketing, sempre meno fatica e sudore di tifosi e sempre più rilassatezza salottiera di spettatori. Sempre meno reale e sempre più reality. La televisione si è presa il calcio, il tifo, il cuore e se li sta mangiando. In una situazione in cui la pay tv ha distrutto la sacralità della domenica calcistica italiana e i calciatori passano da una squadra all’altra nel corso del campionato, gli ultras vedono se stessi come gli unici detentori del vero calcio, genuino e popolare.
Il movimento ultras si pone, nei confronti del calcio moderno, esattamente come una setta estremista si porrebbe nei confronti della propria chiesa di riferimento, denunciandone la corruzione, la debolezza e la depravazione. Uso smodato di calciatori stranieri, maglie personalizzate, presidenti che possiedono più squadre, iper valutazione dei calciatori finalizzata alla manomissione dei bilanci, doping per potenziare le prestazioni degli atleti e ottenere più sponsor: i gruppi ultras rinnegano il calciomercato, si ritengono depositari del vero spirito della propria squadra e spesso e volentieri lo difendono dalla squadra stessa.
Non è raro che i gruppi ultras blocchino le partite, boicottino le società, impediscano ai tifosi “regolari” di accedere allo stadio se notano movimenti e acquisti che non piacciono loro. Le società, che negli anni Cinquanta – alla nascita della tifoseria organizzata – avevano sostenuto e sponsorizzato le varie curve, ora sono sotto scacco. Non possono evitare di scendere a compromessi con la propria curva di riferimento e così i calciatori stessi.
Nonostante i gruppi ultras siano tutti diversi e antagonisti tra loro, è chiaro che c’è una cultura comune a cementificarne le dinamiche. Ma nel movimento entra in gioco un elemento fondamentale: la sottocultura del gruppo. Nell’ambito di una cultura più ampia – quella di una nazione, o di varie nazioni, o di un’etnia – esistono sempre delle sottoculture, anche molto diverse tra loro, quanti sono i gruppi che in essa agiscono. Il tifo ultras si organizza in gruppi ben definiti, caratterizzati da striscioni e nomi simbolici in cui ci si sedimentano meccaniche, gerarchie e valori diversi da quelli cultura ultras dominante.
C’è fratellanza e senso di appartenenza in ogni gruppo ultras. Non si abbandonano mai i compagni né la propria città – i gruppi rivendicano sempre di essere i primi a intervenire durante le alluvioni o i terremoti – né la propria squadra. C’è un cameratismo fortissimo, assolutamente militare, che si percepisce nei cori, nei manifesti, nei discorsi d’incitamento.
NUCLEO STORICO SALERNO: “32 ANNI DI AMORE E MENTALITÀ”: in questo mondo che ormai sembra non volerci più […] c’è un gruppo di amici che non si arrendono. […] L’amore per la maglia, la difesa della città come unica linea e come principi imprescindibili senza i quali nulla avrebbe senso. […] SALERNITANA unico riferimento delle nostre azioni, unico sostegno nei momenti in cui mollare sembra l’unica soluzione. La maglia granata unica medicina. VIVERE ULTRÀ PER AMARE SALERNO come compagno di viaggio e credo eterno. Finché avremo ancora la forza di urlare e cantare, finché i ragazzi, le nuove leve […] ci daranno la speranza e la voglia di credere noi ci saremo. […] A tutti quelli che non mollano e non hanno mai mollato in nome di un ideale da difendere […] proseguono imperterriti in un percorso di militanza e perseveranza […] anche se adesso la lotta ormai è diventata impari.
Date una spada e un cavallo a questo ultrà. Se lo sistemiamo un po’, il discorso lo può fare anche Aragorn di fronte al Nero Cancello. Le metafore belliche sono evidenti e si inseriscono in un contesto perfetto: quello di una sfida costante tra città e nazioni. Non solo i gruppi ultras si configurano come manipoli di uomini che scendono in battaglia uniti e feroci, ma le stesse squadre possono essere viste come eserciti. La maglia rappresenta un’identità territoriale, calciatori e ultras ne sono i fedeli soldati. E così la tensione emotiva straripa, va ben oltre l’evento hic et nunc, assume sfumature primordiali di difesa.
L’ultras si sente un paladino dell’onore del gruppo che, attraverso lo scontro verbale e fisico, deve essere permanentemente salvaguardato dagli attacchi delle tifoserie rivali. Tutto è giustificabile se fatto per i propri fratelli e per la propria città, e le parole urlate dai capi ultras sugli spalti ricordano i discorsi dei capitani o dei re all’alba della battaglia. In Non Plus Ultras, nei cori finiscono le parole che Shakespeare metteva in bocca ai suoi condottieri: We few, we happy few, we band of brothers; For he to-day that sheds his blood with me/ Shall be my brother.
Come gli antichi cavalieri, anche gli ultras hanno un codice. E c’è una regola comune a templari, soldati e tifosi organizzati, ovvero non coinvolgere mai i civili. La rissa va cercata solo con gli ultras: gli altri gruppi sono nemici che scelgono consapevolmente di essere tali. La violenza è un rito codificato e normalizzato nel mondo ultras perché determina la posizione del gruppo stesso nella gerarchia delle varie tifoserie. Tutti i partecipanti accettano il gioco e quindi anche il rischio che ne deriva.
Però c’è un piccolo problema. Le risse tra ultras non avvengono in luoghi deserti e dismessi, ma fuori dagli stadi o perfino nei centri delle città raggiunte in trasferta. È impossibile essere certi che nessun “non ultras” non venga coinvolto e la rigidità del movimento magicamente traballa in merito a questa regola. Ciro Esposito è una vittima innocente di queste “battaglie interne” e nessun coro inneggiante all’onore può cancellarlo. Ovviamente, c’è anche il problema delle forze armate, ma anche lì è semplice autoassolversi: polizia e carabinieri non vengono considerati una forza terza e super partes, ma solamente un altro gruppo rivale.
C’è poi una codifica che stenta a essere accettata: quella delle modalità di scontro. Nel post citato, l’utente principale annoverava tra le regole della mentalità il non utilizzo di armi da fuoco e coltelli. Altri utenti, più rigorosi, sostenevano che nelle risse si andasse solo a mani nude, neanche con bastoni e catene. Molti altri, però, si sono accodati all’opinione di un ulteriore utente: secondo me nessun gruppo rispetta tutti questi punti, chiunque ha tenuto in mano una cinghia o un’asta, o si è preso la cena in un autogrill. Per definirsi ultras non bisogna seguire queste “regole”, basta non essere un infame.
Mentre le regole relative all’amore per la maglia sono condivise all’unanimità, quelle sulla violenza sono molto più labili. Influisce fortemente la sottocultura del proprio gruppo, che può essere più o meno violenta rispetto alle altre. Perciò, aderire al mondo ultras significa accettare la possibilità di avere un coltello puntato alla gola. Questo, anche nel caso in cui si scelga, personalmente, di non portare armi con sé (o di evitare del tutto gli scontri).
Ma, allora, com’è possibile che il movimento ultras abbia tanta attrattiva? Esistono miriadi di contesti sociali in cui si crea identità di gruppo e senso di appartenenza, ma che non richiedono un prezzo così alto. Non solo c’è il rischio di morire o essere feriti, ma adottando uno stile di vita così estremo si finisce con l’allontanare chiunque non lo comprenda e rinunciare man mano alla propria quotidianità.
Il punto è proprio che, più grande è il sacrificio, più forte è il fascino. Il movimento ultras è pieno di ragazzi della porta accanto, studenti, fattorini, commercianti: persone ordinarie, niente di più. Persone che, però, non hanno una fede. Odiano il loro lavoro, non hanno credi politici e religiosi, si trascinano ogni giorno in una quotidianità monotona e soffocante. Nel vuoto ideologico del nostro presente, i simboli e i valori del mondo ultras riempiono il cuore e la testa, danno a esistenze vuote e ripetitive uno scopo, un ideale, un senso.
È tutto perfettamente umano. Da sempre ci barcameniamo tra una fede e l’altra. Prima, quella religiosa, che ci ha spesso portati ad atti violenti e sanguinari, a crociate e roghi contro gli infedeli. Poi, c’è stata la fede nello Stato, nella superiorità della propria nazione. Ancora, la fede nella razza pura, che rendeva ogni diverso un nemico. C’è stata la fede nel comunismo, nel fascismo, nell’anarchia, nel liberismo. Oggi c’è la fede nella propria azienda, nel capitalismo, nella parabola del successo. Gli umani sono stati disposti a tutto per ognuno di questi credi, dalle notti insonni alla violenza fisica, verbale o indiretta.
Abbiamo bisogno di uno scopo. Abbiamo bisogno di simboli, di riti di massa, di codici. Vogliamo sapere cosa indossare, come parlare, cosa fare delle nostre giornate. Abbiamo la necessità di avere un branco, meglio se si muove in base a rituali comuni e regole ferree. Il sacrificio non è un peso, ma una tentazione: dare tutto per un ideale o per un gruppo ci stuzzica, perché spezza quel senso di vuoto, solitudine e alienazione che ci pervade.
E perché mai non sacrificarsi all’idolo sacro della maglia? Perché tra le uniformi del presente, accanto a tuniche, divise militari e cravatte non ci dovrebbe essere anche un felpa con il cappuccio e gli anfibi neri?
È così facile perdersi. Giustificare ogni atto, anche il più violento, perché necessario al gruppo e alla propria causa. La cifra di ciò che è sbagliato però è semplice: basta una vita persa, una sola, e la fede che stiamo seguendo smette di essere giusta.