Nella seconda metà dell’Ottocento, in ambito fotografico, la ritrattistica raggiunse un grandissimo sviluppo, la manipolazione divenne più pratica, la tecnica più facile e i risultati più costanti. Contemporaneamente, furono aperti studi privati in tutto il mondo.
La foto-ritratto è un campo chiuso di forze. Quattro immaginari vi si incontrano, si affrontano, si deformano. Davanti all’obiettivo, io sono, nel medesimo istante, chi io credo di essere, chi vorrei si creda io sia, chi il fotografo crede io sia e ciò di cui egli si serve per far mostra della sua arte.
Nel 1851 ebbe inizio la nuova era legata alla tecnica grazie alla scoperta, da parte dello scultore inglese Frederick Scott Archer, di un metodo per sensibilizzare le lastre di vetro con sali d’argento mescolati al collodio. Nell’arco di un decennio, questo nuovo sistema sostituì completamente il dagherrotipo e il calotipo, regnando incontrastato nel mondo della fotografia fino al 1880.
André-Adolphe Disderi, nel 1854, non si dedicò alla diffusa ritrattistica d’élite realizzata in grande formato – al contrario di Nadar o Adam Salomon – ma inventò un apparecchio a più obiettivi con cui fu in grado di eseguire una serie di piccoli ritratti di 6×9 cm che chiamò cartes de visite. Per ottenere queste opere, Disderi realizzava il negativo su lastra umida con un apparecchio speciale dotato di quattro obiettivi e un portalastre scorrevole. Su ciascuna metà della lastra, venivano create quattro esposizioni e, per questo motivo, da ciascun negativo era possibile trarre otto immagini in pose diverse. Da una sola stampa del negativo, quindi, si ritagliavano otto ritratti distinti. Il fotografo francese rese famoso in tutto il mondo il suo sistema di ritrattistica in serie, nonostante questo fosse così facile da imitare che, in ogni dove, fotografi anche poco esperti iniziarono a fabbricare cartes de visite in modo ripetitivo e meccanico. La “cardomania”, infatti, dopo la Francia, invase l’Inghilterra e l’America vendendo migliaia di fotografie al giorno. Secondo l’Art Journal del 1857, il ritratto fotografico era diventato così popolare da costituire un vero e proprio flagello pubblico.
Nel 1860, in Francia, non esisteva alcuna legge particolare su questo argomento, ma le polemiche legate alla fotografia, in quanto opera d’arte, proseguirono senza sosta con scontri violenti tra artisti, artigiani e letterati. Quasi tutti evidenziarono come l’azione dell’artista tout court appartenesse, in qualche modo, al mondo dello spirito, mentre quella del fotografo al regno della realtà e della natura “obiettiva”. Affinché questa fosse considerata degna dell’appellativo “arte”, i suoi esecutori avrebbero dovuto dimostrare di saper manipolare il proprio strumento così come il pittore faceva con le tele.
Fino a che punto era nelle possibilità del fotografo controllare la luce, organizzare la composizione, elaborare o sopprimere alcune parti del soggetto secondo quanto gli suggerivano i suoi pensieri e i suoi sentimenti? Era davvero capace di modificare l’apparenza del reale e di separare il Bello da ciò che era, invece, volgare?
Difficile stabilirlo. Per questo motivo, la decisione spettò ai tribunali, impegnati in un importante processo dal 1861 al 1862. I fotografi Mayer e Pierson avevano accusato altri due fotografi, Betbeder e Schwabbe, di aver riprodotto abusivamente le loro fotografie di Lord Palmerston e del conte di Cavour. I querelanti rivendicavano la protezione delle leggi francesi sui diritti d’autore del 1783 e del 1810 ma, dato che queste potevano essere applicate soltanto alle arti, era necessario che la fotografia fosse legalmente riconosciuta come tale.
Anche se la prima sentenza del 9 gennaio 1862 fu sfavorevole, la tesi del loro difensore, l’avvocato Marie, si rivelò fondamentale: La fotografia è un’arte? È vero che nelle fotografie l’istinto, il sentimento, il gusto e l’amore dell’artista sono inutili? Un procedimento meccanico può produrre da solo questi effetti? Allora cos’è l’arte? Chi può definirla? Chi può dire dove comincia e dove finisce? Chi ha la facoltà di dire: puoi andare fin qui e non oltre? Pongo questi quesiti ai filosofi che se ne sono occupati; noi possiamo leggere con interesse ciò che essi hanno scritto intorno all’arte nelle sue diverse forme. L’arte, essi dicono, è bellezza, e la bellezza è verità nella sua realtà materiale. Se noi vediamo la verità nella fotografia e se la verità nella sua parvenza esteriore affascina l’occhio, allora come può non essere bellezza? E se qui si trovano tutte le caratteristiche dell’arte, come può non essere arte? Ebbene! Io protesto in nome della filosofia. Il pittore non è mai così contento come quando è capace di imitare con esattezza, ed è convinto di aver creato un’opera d’arte avvicinandosi il più possibile a quella natura che lo affascina e che egli ammira. Il pittore non è più un pittore quando riproduce con esattezza? Verità e bellezza sono la stessa cosa sia per il fotografo sia per il pittore e scultore. Il pittore crede che il proprio occhio sia simile a una macchina fotografica che registra la natura e con i mezzi di cui dispone la fissa, così come la chimica fissa l’immagine fotografica. Il fotografo deve avere la stessa inventiva del pittore, deve innanzi tutto avere un’immagine in mente, composta dalla sua fantasia. In un secondo tempo, con il suo strumento, può cogliere quello che la sua intelligenza ha concepito, e quindi trasmetterlo nella sua opera.
Concludendo la sua argomentazione, il legale chiese che i diritti della riproduzione fotografica fossero garantiti dalla legge.
Il 4 luglio 1862 il procuratore generale Rousselle dichiarò davanti alla corte che la fotografia era una vera e propria arte e che, quindi, sarebbe stata protetta dagli stessi statuti che governavano le altre arti. Il processo, però, non era ancora chiuso: contro la sentenza fu presentata una petizione che recava le firme di un numero impressionante di artisti capeggiati da Ingres, al quale facevano seguito Flandrin, Fleury, Nanteuil, Jeanton, e molti altri.
Il testo recitava: Considerato che in processi recenti la corte è stata costretta a occuparsi della questione se la fotografia debba essere ritenuta un’arte bella e ai suoi prodotti debba essere concessa la stessa protezione di cui godono le opere degli artisti; considerato che la fotografia consiste in una serie di operazioni esclusivamente manuali che esigono, senza dubbio, una certa abilità nelle necessarie manipolazioni, ma non si risolvono mai in opere che possa in qualsivoglia circostanza essere paragonate a quelle che sono frutto dell’intelligenza e dello studio dell’arte: per questi motivi, i sottoscritti artisti protestano contro qualsiasi paragone che possa essere fatto fra fotografia e l’arte.
Tuttavia, in un articolo che riportava la petizione, il giornalista Ernest Lacan aggiunse, con sua grande soddisfazione, che sia Léon Cogniet che Eugène Delacroix si erano rifiutati di firmare. Per questo motivo, era giusto supporre che molti altri artisti, il cui nome non figurava nella lista, volessero manifestare la loro riluttanza ad allinearsi con Ingres, sottointendendo un atteggiamento più generoso nei confronti della fotografia.
Il 28 novembre 1862 la corte respinse l’esposto, confermando la sentenza e affermando in tal modo che la fotografia può essere un prodotto del pensiero e dello spirito, del gusto e dell’intelligenza, e può, inoltre, portare dentro di sé l’impronta della personalità dell’autore. La fotografia, insomma, può essere arte.