La maschera del Sole, il nuovo lavoro di Ciro De Novellis, è “copernicano”, nel senso che cerca di stabilire come e perché siamo noi, la nostra storia, a girare attorno all’archetipo del sole. Il sottotitolo è programmatico: Pulcinella e l’archetipo del teatro, come a dire che la teatralità partenopea avviene “alla luce del sole”, quello delle campagne e del mondo bracciantile, il cui personaggio, forse Puccio D’Aniello, fu clonato da compagnie girovaghe e la cui personalità fu elaborata e approfondita grazie all’interesse della letteratura, della drammaturgia e delle arti visive, fino a diventare mito.
Il sole di De Novellis è mascherato, come una “persona” e, a mano a mano, per vari capitoli, smascherato nei suoi allegati storici e psichici che trovano in Pulcinella la loro ombra sulla scena (skenè, ombra, palco). Siamo del parere che, più che la musica e la canzone, la vera musa di Napoli, il suo modo d’essere e di esprimersi, sia il teatro, culto ma soprattutto stradaiolo. L’inventario che fa l’autore degli antichi teatri partenopei, risalenti al periodo greco-romano, conferma questo assunto.
La maschera del Sole segue un precedente studio di De Novellis su Pulcinella, la cui divisa ricorda quella di Mitra, raffigurato canonicamente come dio-sole nel momento in cui aggioga la costellazione del toro. Seguendo questa lettura, la maschera pulcinea rappresenterebbe il primo grado dell’iniziazione mitraica, il corax, corvo, la materia grezza, che ha bisogno di essere lavorata, purificata. Questa deduzione non tiene conto dei fatti storici ma, come tutto ciò che riguarda Pulcinella o i miti, parte da un dato reale e va “all’indietro” cercando di intercettare, mediante analogie, le tane del reale stesso, i suoi precedenti, anche fantasiosi ma plausibili in termini di senso.
Facciamo un esempio: Pulcinella, si dice, è nato da un uovo ed è un gallinaceo per cui apparterrebbe alla coorte di Demetra e dei misteri eleusini. È una lettura intrigante e fascinosa ma non supportata storicamente per il semplice fatto che, pur considerando il “rumore di fondo” delle Atellane, la maschera risale al 1600, molti secoli dopo Eleusi; la ricchezza, ambiguità e polivalenza dei simboli consiste proprio in questo “sistema aperto”.
Il volume si struttura in due parti: nella prima si fa l’inventario dei metodi critici e d’indagine; nella seconda si narrano fatti, episodi, protagonisti che si sono ispirati alla chichirrante maschera e si resta impressionati dalle notizie fornite. Il metodo, altresì, è creativo: l’autore procede ricorrendo all’etimologia e, nel contempo, ad analogie ardite, a cortocircuiti di senso perché ne nasca uno nuovo (quello sentito come originario) non codificato dalla polvere della damnatio memoriae.
Abbiamo parlato di smascheramento ma, contemporaneamente, avviene il contrario: De Novellis pone sul volto del sole la meza sola, la maschera, appunto, chiamata “meza sola” perché ottenuta lavorando un pezzo di cuoio dal quale si ricavavano le scarpe. Ma c’è un altro filo narrativo: attraverso il racconto documentato degli equivoci che hanno caratterizzato Pulcinella-Sole nei vari secoli (una linea di indagine supponeva, anni addietro, con una forzatura, la derivazione di Pulcinella da Horus) si cerca di stabilire la verità antropologica della maschera partenopea, si evidenziano le “coperture” di cui è stata oggetto per il suo essere – e a questa tradizione popolare appartiene – un giullare che deride il potere, un tipo pericoloso come quelli che, secoli addietro, l’illuminatissimo Federico II sottoponeva alla pena capitale. Pulcinella, beninteso, non è un angelo ma un demonio la cui natura luciferina si può cogliere partecipando al Carnevale di Montemarano, durante il quale i “caporaballi” danzano con salti improvvisi (i Salii?), o visitando l’atelier dello scultore Lello Esposito.
Cosa è successo? In che consiste la “copertura”? La questione potrebbe essere riassunta con un esempio: nel 1600 i gesuiti distinguevano tra Las Indias de por acá, il nostro Sud, dove venivano allenati i futuri missionari da destinare alle Indias de por allá, Africa, Asia, Sudamerica. Va ricordato, inoltre, che, per “umanizzare” i lestrigoni del Sud, Sant’Alfonso fondò la compagnia dei Redentoristi. Basti pensare ai resoconti dei cronisti in ordine alle superstizioni del popolo “basso”, alla sua mentalità “magica” e “sfrenata”, all’oscena farchinoria dei pastori calabresi. Su questo mondo istintivo, fondamentalmente infantile (Vico), che parla come mangia – se mangia – fu attivata la damnatio memoriae (si pensi al Sorvegliare e punire di Foucault). Un altro esempio di “copertura”: nei luoghi della Campania dove c’erano templi (di solito rupestri o in caverne) dedicati alla Grande Madre, sorsero basiliche e chiese dedicate alla Madonna.
I resoconti ci informano di pratiche che fino a pochi decenni fa erano ancora attive come, per esempio, l’incubazione, cioè sostare per molto tempo in caverne aspettando la trance, le stesse caverne di cui Napoli è ricchissima e un tempo sedi di culti. A Cimitile, il cui stemma reca la farfalla della metempsicosi, cioè della trasformazione e dell’iniziazione (la farfalla rappresenta la psiche, l’anima), i pellegrini dormivano all’aperto ponendo l’orecchio a terra per ascoltare le lallazioni della Madre Terra, con scandalo di San Paolino. In Maia la partoriente (2020) il nostro autore ha intercettato un culto antichissimo, quasi una religione, quella dell’Arco.
Riportiamo una sua notizia di prima mano: nella tavola peutingeriana (dal geografo Peutinger), che era l’inventario delle strade romane dall’Inghilterra all’Oriente, è segnato un sacello ad arco, nei pressi di Pozzuoli, probabile sede di funzioni relative all’Arco. L’indagine sulle grotte e sugli archi dell’antica Campania, e di Napoli in particolare, continua anche qui e certamente il lettore visualizzerà la Crypta Neapolitana, da cui la festa di Piedigrotta, a suo tempo licenziosa, o le grotte del Chiatamone o della Sanità, luogo extra moenia destinato alle sepolture, cui si accedeva attraversando archi.
Pulcinella, “larva” del sole, è un pretesto per narrare la Napoli del culto solare. Nella prima parte, dunque, De Novellis punta a intercettare segni e allegorie in un labirinto oscuro e, nel contempo, “alla luce del Sole” mascherandosi anche lui quando “gioca a nascondino” con l’etimologia e l’omofonia.
Nella seconda parte, dedicata al “Re-citare-Ri-petizione-Re-ligere”, si narra di teatro, di gestualità e di riso. Certo: altri hanno studiato questi aspetti, a cominciare da Andrea de Jorio, a metà Ottocento, e, per le dinamiche del ridere, il grande Bachtin; De Novellis osserva gesti e riso così come li percepisce il popolo, regalandoci molte informazioni sugli interpreti di Pulcinella e sugli artisti visivi che, dal Novecento in poi, ne hanno fatto la storia. L’elenco è cospicuo e riguarda personaggi sottratti anche loro, grazie al nostro autore, alla dimenticanza.
Ma, in fin dei conti, come e quando è nato Pulcinella? Le Atellane sono l’humus della sua nascita nel senso che c’era una tradizione antica nella quale è germogliato, fatta di personaggi comici dai tratti fisici caricaturali, standard, quelli che fanno ridere, gli stessi che si riscontrano dappertutto e presso tutte le civiltà. I contadini dell’osca Akeru (Acerra), come in tutte le comunità agricole, lavoravano sotto il sole, che bruciava loro il volto. La prima maschera di Pulcinella, proprio per questo motivo, era di colore rosso-mattone e le performance ripetevano, nell’aia o in uno spazio condiviso, il processo di produzione agricolo.
Nei negozi di Napoli si vedono ancora maschere di un rosso come quello della copertina del libro, elaborata dal maestro Antonio Ciraci. I frizzi, lazzi e sghimbesci di Pulcinella, jaculator obloquens, traggono origine dall’allucchiata (da “alluccare”, gridare) o incanata (l’abbaiare di una muta di cani), rituale aggressivo e scomposto che si svolgeva durante la vendemmia e la mietitura. In questo periodo, festoso, era consentito ai braccianti di inveire e di deridere il padrone. Qualche eco la si trova in alcune “barzellette” delle tammnurriate: È notte e non posso lavorare di più. Il padrone piange perché la giornata è troppo corta.
Desideriamo dare anche noi un contributo agli interpreti di Pulcinella citando il quasi sconosciuto Nunziante Pagano, avvocato, autore-traduttore in dialetto di una Batracomiomachia (1747) oggi molto godibile ma che, due secoli fa, era osteggiato dal Galiani quando l’opera uscì in stampa per lo stile “snervato e scorretto”. Prima, nel vederlo in azione come attore e improvvisatore pulcinellesco, il Galiani ne era entusiasta ed è sempre l’abate, con, poi, Mastriani, che ci danno informazioni sull’origine “nativa” , etnica, di Pulcinella, la sua appartenenza alla cultura orale-teatrale. Dove sta andando, oggi, la maschera? Verso l’UNESCO, grazie all’etnomusicologo Carlo Faiello.