Per il critico Michael Fried nel 1967, l’esperienza di Smith era una guerra che vedeva il teatro e la letteratura mettersi contro l’arte; questa sua preoccupazione era legata al fatto che altre discipline stavano invadendo il campo della scultura e della pittura. Fried voleva semplicemente che tutte le arti tornassero all’interno delle proprie competenze, quindi senza sfociare altrove.
Si tratta di sperimentalismo, definito urbanisme unitaire dai situazionisti, che, come scrive Francesco Careri nel suo Walkscapes, tendeva a una sorta di interdisciplinarietà unificante. In realtà, tutto questo non è mai diventato un “problema” reale perché la scultura, cercava di confrontarsi con i propri limiti e ampliare il proprio campo d’azione, tendendo sempre più a invadere lo spazio vissuto: la danza, il teatro, il paesaggio e l’architettura.
Secondo Rosalind Krauss, dopo gli anni Cinquanta, la scultura era però diventata una sorta di esperimento negativo dell’architettura e del paesaggio, era ciò che, sopra o davanti un edificio, non era un edificio; o quello che, inserito in un paesaggio, non era un paesaggio… era ormai la categoria risultate dal non-paesaggio e dalla non-architettura… Ma la non-architettura non è che un’altra forma di definire il paesaggio, e il non-paesaggio è più semplicemente l’architettura. La Krauss, scrive Careri, graficizzò, così, il “campo espanso” in cui operava la scultura post anni Sessanta, collocando in basso quella modernista, derivante dalla non-architettura e dal non-paesaggio, e in alto i due elementi positivi di paesaggio e architettura che individuavano lo spazio d’azione della “costruzione dei luoghi” al cui interno vi erano i labirinti, i dedali, i giardini giapponesi, i luoghi destinati ai giochi e alle processioni rituali.
La scultura veniva, quindi, riconsiderata in un quadro storico molto più ampio, dove la costruzione delle sue genealogie prendeva informazioni che tornavano indietro nel tempo di millenni. Gilles Tiberghien, seguendo le parole della Krauss, scrisse: Se la storia dei rapporti tra architettura e scultura è complessa, e suppone come dice Hegel una sorta di divisione delle funzioni, sembrerebbe che per un certo numero di scultori della Land art si sia trattato di ritornare alle origini stesse di questa storia. Questa visione fa diventare quindi l’architettura come un posto sicuro, dove ripararsi, dove è possibile riunirsi, dove coltivare il proprio culto, la scultura invece è destinata a presentare l’immagine dell’uomo e del dio.
Georg Wilhelm Friedrich Hegel cercò delle architetture, considerandone la funzione simbolica, il cui significato andasse cercato all’esterno, oltre la sua forma esteriore. Si trattò di opere indipendenti dalla funzione – allo stesso tempo di architettura e scultura – definite dal filosofo sculture inorganiche in quanto realizzano una forma simbolica destinata solamente a suggerire o risvegliare una rappresentazione. Per Hegel le prime opere di questa architettura non funzionale erano le piramidi, gli obelischi egiziani e le statue colossali: È solamente nella creazione inorganica che l’uomo è pienamente l’uguale alla natura, e che crea sotto l’impulso di un profondo desiderio e senza modello esterno; da quando l’uomo supera questa frontiera e comincia a creare delle opere organiche, l’uomo diventa dipendente da queste, la sua creazione perde ogni autonomia e diventa una semplice imitazione della natura.
Tiberghien, in risposta, diede la sua definizione di scultura inorganica – una pura presentazione di sé, il dono della presenza nuda – e aggiunse che tutto è andato come se gli artisti minimali, avendo voluto ridare alla scultura un massimo di autonomia, avessero ritrovato e dato valore a un certo numero di elementi che essa condivide con l’architettura, grazie ai quali gli è stato possibile ritornare a una sorta di forma originaria. Molte opere di Land art, secondo Tiberghien, si situavano al di qua dello stesso simbolico, in quella sfera di individuazione dell’architettura e della scultura che corrisponde a ciò che Hegel chiama il bisogno primitivo dell’arte.
Careri però fa compiere un ulteriore passo indietro rispetto al pensiero di Hegel e considera come archetipo della scultura inorganica il menhir. Un percorso che, seguendo questa logica, appartiene alla sfera che si situa oltre le sculture inorganiche, chiamate dal tedesco bisogno primitivo dell’arte e definite dalla Krauss costruzione dei luoghi. L’architettura, la scultura, il paesaggio e il percorso hanno quindi un campo d’azione comune che non è altro che l’attività di trasformazione simbolica del territorio. Il camminare si trova, dunque, in un contesto che è contemporaneamente scultura, architettura e paesaggio, tra il bisogno primitivo dell’arte e la scultura inorganica.
Il menhir, allora, può essere considerato come la prima scultura inorganica, dato che le piramidi e l’obelisco discendono da questo e dal benben. Careri spiega che si tratta di una forma simbolica che racchiude in sé l’immagine del dio, della casa, della colonna dalla quale si svilupperà l’architettura e la statua che darà vita alla scultura. Ma è anche la prima costruzione figurativa della crosta terrestre che trasforma il paesaggio da uno stato naturale a uno artificiale. Proprio per tale motivo, si comprende perché la scultura minimale, per far nuovamente suo lo spazio architettonico, tornò a confrontarsi con il menhir, evolvendosi infine nella Land Art.
Questi artisti minimali avevano quindi lo scopo di annullare tutto quello che poteva essere considerato scultura; si trovavano in una sorta di grado zero della loro disciplina. Per avvicinarsi al menhir, avevano deciso di eliminare il basamento, in questo modo fu possibile riconquistare il rapporto diretto con il cielo e la terra, eliminare il colore, ma anche sostituire i materiali naturali con quelli artificiali e industriali. Le loro furono composizioni che prendevano vita grazie alla ripetizione e alla progressione ritmica e seriale, annullando le forme pure, ogni figuratività mimetica.
Da questo nacque qualcosa di immobile, un oggetto quasi morto, inespressivo, un personaggio senza vita che riuscì a prendere possesso dello spazio imponendo allo spettatore una partecipazione, la condivisione di un’esperienza che andava oltre il visibile e che interessava tutto il corpo, la sua presenza nel tempo e nello spazio.