«Allora, che facciamo? Mettiamo anche i ciccioni tra le categorie che la Legge Mancino protegge? O i portatori di occhiali, i cacciatori, i vegani?». Così ha tuonato Andrea Cangini di Forza Italia in Aula durante un dibattito relativo al Ddl Zan, seguito da uno scroscio di applausi. Sulla totale isteria di quegli interventi ci sarebbe tanto da dire, ma questa frase in particolare mi ha colpita. Perché, riflettendoci, la battuta squallida di Cangini è uno dei pochi riferimenti alle persone in sovrappeso fatti in Parlamento. Eh sì, il problema grasso è stato solo affrontato a livello sanitario, parlando di dramma dell’obesità, ma mai da un punto di vista sociale. Tant’è che il pensiero di tutelare le persone grasse dalle discriminazioni è stato usato come linea comica. In realtà, c’è poco da ridere. La grassofobia è un problema sociale vero, che estende le sue radici ovunque.
Con questo termine si indicano le discriminazioni e il pregiudizio che le persone subiscono sulla base del loro peso. Si tratta di una traduzione italiana di fat shame, letteralmente vergogna del grasso. Ed è proprio questo il sentimento che si cerca di instillare nelle persone grasse: vergogna. Vergogna perché si è pigri, lenti, ingordi, senza controllo. Vergogna perché sarebbe così semplice avere un corpo conforme, produttivo, efficiente, che non pesa sul sistema sanitario. Semplicemente manca la forza di volontà.
La parola ciccione sta molto bene in bocca a un esponente della destra cattolica. Secondo Sabrina Strings, docente di sociologia all’Università di California, la grassofobia si è intrecciata col razzismo e col suprematismo bianco per secoli. Nel suo libro, Fearing the Black Body: The Racial Origins of Fat Phobia, Strings evidenzia come nel diciottesimo secolo diversi “scienziati della razza” suggerivano che le persone nere mancassero di integrità morale e capacità di controllare i loro desideri. Viziosi, lascivi, grassi. Le donne bianche venivano incoraggiate a distanziarsi dalle donne nere, rimanendo magre per preservare la loro identità razziale. La religione cattolica ha sempre rinforzato questa associazione mentale: il peccato viene dal corpo, sacrificare cibo e piaceri significa elevazione spirituale.
Questa mollezza caratteriale, fusa indissolubilmente nel grasso, risulta poco compatibile con l’aggressivo mondo del lavoro capitalista. Dove tutto è rapido, competitivo, ambizioso, che speranza ha un pigro grassone? E, infatti, non ce l’ha. Vari studi hanno evidenziato che le persone grasse tendono a essere scartate o pagate meno, a prescindere dal tipo di lavoro o dalle competenze richieste. Più del curriculum vale la foto: è stato provato che a seconda che il peso di un candidato venga rivelato o meno, l’esito di un colloquio di lavoro si ribalta totalmente. In particolare, le donne tendono a essere discriminate tre volte più degli uomini. Soprattutto in lavori che richiedono contatto col pubblico e visibilità. Ovviamente. Che figura ci fa poi l’azienda con una rappresentante obesa?
Ripassiamo la gerarchia: uomini normopeso, donne normopeso, uomini grassi, donne grasse. Dopotutto, sono i dati a giustificare questo schemino: le persone grasse sono meno produttive di quelle normopeso. Peccato che questi dati si basino unicamente sulla maggiore richiesta di giorni di malattia, non sulle competenze e capacità. Ebbene sì, le visite mediche impediscono di #fatturare. Le persone grasse risultano scomode anche dal punto di vista della sicurezza, dato che è stata registrata una maggiore esposizione agli infortuni sul lavoro. Ma allora che si fa? Quali strategie aziendali si possono usare per risolvere tutti questi fastidiosi inconvenienti? Mandiamo Jeff Bezos sulla Rupe Tarpea a buttare giù tutti i malati cronici, gli storpi e i grassi? Quasi.
Pochi giorni fa sono stata colpita in faccia da un articolo di Harvard Business Review su un CEO svedese. Il suddetto CEO si vantava di aver organizzato la sua impresa come una palestra di crossfit. Tutti i dipendenti sono stati obbligati ad allenarsi. L’idea alla base è che la palestra promuova l’abitudine al sacrificio, al lavoro duro e a lungo termine. Quindi, una persona allenata sarà anche più attiva e produttiva. Il fatto che una strategia aziendale simile sia finita su uno dei giornali più importanti in materia prova che la grassofobia – e l’abilismo – non è semplicemente tollerata, ma incentivata. Promuovere l’attività fisica è positivo per tutti, grassi o meno, ma legare il fisico dei CEO al successo dell’azienda è agghiacciante.
L’odissea del ciccione svogliato purtroppo non è finita qui. I risultati di diverse ricerche in ambito sanitario sono inquietanti. Studi sul campo hanno provato la presenza di un forte weight bias, la convinzione che un paziente obeso o sovrappeso non abbia a cuore la propria salute, sia svogliato e conduca necessariamente un pessimo stile di vita. Alle persone grasse viene offerta spesso un’assistenza superficiale, legando ogni possibile sintomo all’eccesso di peso, senza indagare oltre o ascoltare il paziente. I medici tendono a passare meno tempo con loro che con gli altri pazienti, tanto le cure non le seguiranno mai a prescindere. Conseguenza: le persone grasse hanno molte più chances di avere diagnosi sbagliate. Il weight bias è causa di un ritardo nello screening di tumori come quello alla cervice, al seno e quello colon-rettale, nonché una minor probabilità di ricevere un vaccino antinfluenzale. Il peso diventa il capro espiatorio di ogni sintomo, unico male da estirpare.
Spesso, medici e salutisti incoraggiano diete estremamente restrittive e non bilanciate pur di far perdere peso al paziente. Digiuno ascetico, a pranzo solo l’ostia consacrata. Molte donne e uomini grassi raccontano di come l’inizio dei loro disturbi alimentari sia stato accolto con entusiasmo da medici, famiglia e amici, per il semplice fatto che stavano buttando giù chili. A prescindere dal fatto che venisse da comportamenti dannosi come saltare pasti o eliminare del tutto determinati alimenti (zuccheri e carboidrati), la perdita di peso veniva vista automaticamente come sana. Viene da sé che una diagnosi di anoressia o bulimia è impensabile per una persona obesa, e spesso e volentieri il problema viene individuato troppo tardi, quando è ormai ben radicato.
La retorica salutista purtroppo ancora oggi viene usata per giustificare qualsiasi tipo di abuso, pressione o marginalizzazione, perché a fin di bene. Si continua ad associare la magrezza alla salute, alla felicità e alla virtù morale, a prescindere da un’analisi seria e approfondita sulla singola persona e sulle sue necessità. Ogni tipo di discorso sulla lotta alla grassofobia e allo stigma viene bollato come promuovere l’obesità, come se solo le persone in perfetta salute possano chiedere rispetto e dignità. La realtà è che questo bullismo continuo non risolve il dramma dell’obesità, ma vi aggiunge isolamento, problemi economici, allontanamento dal mondo della sanità, disturbi alimentari e una salute mentale peggiore.
Volendo davvero impegnarsi a fronteggiare l’obesità invece che gli obesi, da vari studi è emersa la lampante correlazione tra SES (stato socio economico) e sovrappeso. Anche se il mondo immagina le persone grasse stese su un sofà a mangiare torte come Maria Antonietta, in realtà minore è il SES, maggiori sono le percentuali di obesità. Chiaramente, il cibo meno costoso è anche meno nutriente, pieno di sostanze chimiche e additive, che oltre all’obesità causano un’enorme quantità di patologie. Se ci aggiungiamo una vita più stressante, un ridotto accesso alle cure mediche e la mancanza di spazio/tempo/denaro per svolgere attività fisica, abbiamo il quadro completo. Le stesse aziende che non assumono i grassi sono quelle che fanno sedere una persona di fronte a un PC per otto ore, aspettandosi che quando torni a casa abbia il tempo di preparare cibo sano, fare una corsetta serale in periferia e comprare avocado con i soldi del Monopoli.
E no, mi spiace, la soluzione non è obbligare la gente a fare crossfit durante le ore di lavoro. La soluzione è un approccio serio ai divari sociali ed economici che spaccano il nostro Paese. La body positivity viene spesso liquidata con frasette motivazionali alla siamo tutte bellissime e dobbiamo imparare ad amarci, ma la grassofobia non è una questione di autostima, di bellezza o di salute. Si tratta di giustizia sociale.