È una caccia alla storia, quella di Lia Tagliacozzo. Una ricerca di pezzi di puzzle smarriti nel tempo e nello spazio a cui, una volta trovati, bisogna dare un senso, anche quando appaiono slegati. Si tratta probabilmente dello stesso destino di tutti gli ebrei della generazione di mezzo – così li chiama l’autrice –, i figli degli orfani legittimi della Shoa, quelli che non hanno vissuto le tragedie sulla propria pelle ma le sentono inscritte nel DNA. La generazione del deserto, edito da Manni e in uscita a settembre, è un libro maturato dopo anni di scrittura spesi a raccontare storie di ebrei – storie vere, non inventate, perché ci sono fin troppi nomi rimasti in silenzio e non serve immaginarne di nuovi –, anni al termine dei quali è stata proprio la storia di Tagliacozzo a scoprirsi taciuta.
In realtà, quella narrata tra le pagine di questo volume, è la storia di una famiglia, più che personale, una storia che l’autrice percorre e rincorre per tutta la vita, conscia di quanto ciò che l’ha preceduta sia evidentemente parte della sua identità. Originaria di Roma, figlia di due ebrei che durante la Shoa erano bambini, sopravvissuti allo sterminio per caso, per inspiegabile volere della dea bendata, Lia trascorre una parte della sua vita a cercare notizie sulla sua famiglia, una vicenda taciuta e a volte sussurrata, una vicenda data per scontata ma mai realmente narrata. E La generazione del deserto è tanto un’autobiografia quanto una storia familiare, è la raccolta di indagini, ricerche e scoperte sulle origini, la vita e la morte di più generazioni legate dal sangue, ma è anche il percorso dell’autrice attraverso gli anni di silenzi, curiosità e rivelazioni.
Il libro non è fatto di racconti lineari, di narrazioni messe in ordine cronologico, ma di un’alternanza di grandi eventi, piccoli momenti privati, sensazioni ed emozioni, che accompagnano il lettore nella scoperta della famiglia Tagliacozzo, e non solo, attraverso lo stesso trasporto emotivo con lui l’autrice deve averli vissuti nella propria vita. E il più importante messaggio, che risuona tra le righe di ogni pagina, è che i figli degli orfani, gli ebrei nati quando gli orrori della guerra erano già finiti, non sono realmente liberi dalle paure o dalle violenze che, forse in modo illegittimo, sentono sulla propria pelle come pericolo imminente. È un po’ anonima la loro sofferenza, la paura che a volte attanaglia la voce narrante, sebbene non abbia mai vissuto gli orrori della persecuzione. Il lettore, che difficilmente si identificherà con le vicende raccontate, ne sarà comunque rapito, da un lato grazie alla curiosità di scoprire cosa accade – anzi, cosa è accaduto –, la stessa fame di sapere che ha alimentato le ricerche dell’autrice, e dall’altro a causa della chiarezza con cui i flussi di coscienza di cui è fatto il libro esprimono e suscitano quelle emozioni.
Dopo anni passati a romanzare le storie di ebrei realmente vissuti con l’intento di narrare le vicende avvenute oltre settanta anni fa, Lia Tagliacozzo decide di tentare l’impossibile e di dar voce a quella generazione integra e inviolata di cui fa parte, che non può non sentire il passato come qualcosa che le appartiene e la vita come un continuo errare nel deserto, come i suoi antenati prima di lei. Il racconto doppiamente autobiografico, che descrive le sensazioni dell’autrice ma che si propone anche di rappresentare i tanti che, come Lia, si sentono disorientati, cerca dunque di spiegare attraverso le parole le sensazioni scaturite da un timore che non hanno il diritto di avere e di una storia che non parla di loro.
Dando voce alla generazione degli illegittimi, quelli nati per caso da genitori sopravvissuti per caso, Tagliacozzo si rende conto di quanto la storia, quella familiare, quella locale, e quella di un popolo intero, abbia mantenuto un silenzio difficile da scalfire a causa del quale chi non l’ha vissuta non potrà mai realmente accedere alla conoscenza. Nel suo narrare, scoprire e provare, Lia dimostra quanto in realtà la Storia con la S maiuscola sia fatta di piccole storie familiari e, attraverso l’excursus della sua vita, incarna il timore non solo di chi ha condiviso il suo stesso sangue, non solo degli ebrei di Roma o di Firenze che hanno vissuto gli stessi orrori della sua famiglia, ma di intere generazioni abbandonate all’oblio.
E quando l’autrice dà voce alle proprie incertezze, ai timori latenti che l’hanno accompagnata per tutta la vita nonostante la serenità di cui gode oggi, esprime preoccupazioni tutt’altro che insensate. Alle storie del passato, infatti, accompagna una lucida consapevolezza dell’attualità, che evidenzia le somiglianze tra il passato e il presente. In quegli sporadici momenti in cui le linee temporali si intrecciano, quei riferimenti non rappresentano l’espressione delle paure di un’ebrea della generazione di mezzo, ma spesso lucide osservazioni di una realtà non meno spaventosa. E tra gli orrori del passato e i timori del presente, non può che restare la proiezione verso un futuro, non meno spaventoso ma sul quale si può intervenire, che ancora non è scritto e che può ancora essere diverso da ciò che l’ha preceduto.
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