Chiunque abbia sfogliato i giornali in questi giorni si sarà trovato di fronte a una notizia scritta più o meno così: sono evasi sette detenuti dal carcere minorile di Milano. Sette persone si sono sottratte alla custodia dello Stato. Sette giovani ragazzi hanno approfittato dei lavori che interessano l’istituto ormai da tempo per tentare la fuga, per alcuni di loro conclusasi dopo appena poche ore.
Sette minori, con un gesto forse tipico della loro età e della natura umana, hanno provato a raggiungere una libertà che probabilmente sognano da anni, mesi o semplicemente giorni.
Poche parole e i punti di vista cambiano. Eppure, ci si stupisce tanto che un uomo, la cui libertà personale è ristretta in un luogo insalubre e sovraffollato, tenti, anche se irrazionalmente, di fuggire. La fuga di un detenuto ci fa paura forse perché non riusciamo in alcun modo a vedere quest’ultimo come uomo? Siamo davvero convinti che chi è condannato a una pena, più o meno grave che sia, sia così diverso da noi, tanto da non poter avere i nostri stessi desideri di libertà?
Il tentativo di disumanizzare chi è privato della libertà non è una novità e si registra continuamente, ogni volta che si negano le condizioni di vita impietose degli istituti di pena, ogni volta che si trattano come lussi quelli che dovrebbero essere diritti fondamentali. Poter vedere la propria famiglia, poter sentire i propri cari, essere curato, insomma vivere.
E, così, la prima reazione di fronte alla fuga è lo sconcerto, la rabbia, l’indignazione. Perché chi ha sbagliato non può certo permettersi di trasgredire ancora, tradendo uno Stato tanto generoso. E la rabbia viene assecondata e nutrita da quei rappresentanti politici che solo per ottenere consenso portano avanti narrazioni tossiche e repressive, che rischiano di farci fare ancora passi indietro, in un mondo già martorizzato.
A ciò si aggiunga che si tratta di minori e giovani adulti per cui il nostro ordinamento prevede un trattamento rieducativo e penitenziario che privilegi l’esigenza educativa e formativa tipica di quell’età, innanzitutto limitando lo stesso utilizzo dello strumento detentivo. Non a caso, già da molti anni il numero di persone detenute nelle carceri minorili (perché minori o perché abbiano fino a 25 anni e abbiano commesso il reato quando erano minori), si è assestato intorno alle 400 unità, prediligendo invece istituti di comunità. Un approccio che, data l’inefficacia del carcere, dovrebbe essere esteso anche al mondo penitenziario adulto. Invece con una simile strumentalizzazione politica si rischiano addirittura passi indietro, nel solco della repressione e dell’imbruttimento che caratterizza anche l’attuale compagine governativa.
La stessa attenzione mediatica e simili passerelle non si sono però registrate quando è stata superata la soglia di ottanta persone suicidatesi tra le mura penitenziarie, sia tra la popolazione detenuta che tra il personale, né in tutti i casi in cui sarebbe stata invece necessaria una presenza politica. Lungi da noi minimizzare la fatica di chi lavora in carcere, e in qualche modo finisce immerso in quelle stesse logiche di segregazione perpetrate all’infinito, ma non si può ridurre quanto avvenuto al Beccaria alla semplice necessità di più controllo, più custodia, più restrizioni.
Anziché indagare le eventuali responsabilità individuali, che non spetta a noi sindacare, e puntare il dito, sarebbe forse il momento di avviare una riflessione più ampia sull’universo carcerario, e in questo caso anche sulle diverse esigenze di rieducazione di cui ragazzi e adulti necessitano.
Una maggiore attenzione sarebbe necessaria alle condizioni inumane di detenzione, all’inefficacia del carcere come strumento di rieducazione oltre che di prevenzione della recidiva, ai continui episodi di violenza emersi in questi ultimi mesi e che non sono altro che l’espressione più schietta di un mondo violento che della sua stessa violenza si nutre. Ma una riflessione più profonda e umana non produce consenso né accresce la condizione di paura e repressione a cui oramai la rappresentanza politica ci abitua per fomentare una miserabile guerra tra poveri.
La fuga di un detenuto ci fa paura perché ci mette di fronte a una realtà umana, ci fa vedere i reclusi per quello che sono, crea sgomento perché produce in noi la sensazione di non avere il controllo e di non essere sicuri. Ci mostra l’inutilità degli strumenti che la società ha scelto per difendersi.
Bisogna forse scalfire l’idea che una società repressiva sia più sicura e indagare le cause profonde di simili gesti, di migliaia di atti di autolesionismo, di una percentuale di suicidi di gran lunga maggiore di quella che si registra nel mondo esterno. Solo superando la superficie, le strumentalizzazioni e una distinzione tra cittadini di serie a e di serie b, sarà possibile avere una visione realmente umana.