Ma io chi sono? Posso immaginare un qualunque individuo domandarselo allo specchio e chiedermi poi se essere qualcuno è proprio ciò che quel singolo uomo, a dispetto del caos in cui è inserito, vuole davvero. Se vuole fuoriuscire dal non essere della folla o piuttosto rimandare di un giorno ancora (e ancora) la definizione della propria identità. Un non essere ancora, potremmo chiamarlo il suo, o anche un desiderio innocente di non essere mai.
Il “problema dell’identità” postmoderno è innanzitutto quello di evitare ogni tipo di fissazione e come lasciare aperte le possibilità. L’uomo, infatti, non vuole più costruire la sua identità inventandola daccapo, ma piuttosto si preoccupa di evitare che tale identità gli si appiccichi addosso, costringendolo in una fissazione alla quale non è più abituato.
Il sociologo e filosofo polacco Zygmunt Bauman pone la questione dell’identità al centro del suo attento saggio sulla caducità e l’incertezza postmoderna (dal titolo La società dell’incertezza), guardando alle dinamiche del passato per dimostrare come ora, nella disillusa società attuale, nulla permanga, nulla nasca per restare a galla.
Il mondo di oggi è in sé indeterminato e leggero, così come lo sono i passi di colui il quale cammina per questo mondo e che, secondo il filosofo Bauman, non è più rappresentato dal pellegrino cristiano che vagabondava con uno scopo, una meta, ovvero quella del regno dell’eternità. Il camminatore postmoderno è invece lo straniero, qui inteso come colui che ostinatamente si fa estraneo a se stesso e che conduce alla deriva il progetto della sua identità.
Bauman in La società dell’incertezza scrive che il mondo postmoderno si sta preparando a vivere una condizione di incertezza permanente ed irresolubile. Difatti, l’uomo contemporaneo ha perso le sue radici e cammina per il mondo intenzionato a non lasciare traccia; indossa maschere una dopo l’altra per confondere qualsiasi barlume di identità, restituendo all’esterno un’immagine di sé così frammentata che nemmeno nella sua dimora intima riesce a ricompattare. Si tratta di un’immagine di sé che può essere ricostruita solo a partire da una “raccolta di istantanee”, ovvero storie di vita slegate, perché egli preferisce ricominciare sempre dall’inizio, sperimentando forme indossate sul momento e altrettanto facilmente dismesse.
Frammentati e slegati sono così i suoi legami, incentrati su una distanza tra l’individuo stesso e l’Altro, distanza basata sulla considerazione dell’Altro come oggetto di valutazione estetica e come una questione di gusto, piuttosto che di responsabilità. L’individuo, infatti, non si assume più la responsabilità dell’Altro, non lo incontra se non superficialmente; si accorge dell’Altro solo come occasione di specchio per se stesso ed è in questo senso, nello stile di relazione, che viene spontaneo intenderlo nella definizione di narcisista, ossia il rappresentante di quella realtà psichica individuata da Freud nell’uomo che prescinde da ogni legame con il prossimo, con lo scopo urgente di preservare la sua immagine, ma forse soprattutto per preservare la sua anima.
L’uomo moderno è, essenzialmente, di passaggio e lo è perché sente insistentemente una voce che gli indica la fine e, in quanto essere umano, non può sfuggire a questa sensazione. Nel proprio cammino, infine, l’uomo vuole essere solo perché, in un punto imprecisato della propria storia, ha perso la fiducia. Egli non indugia in nessun luogo perché ha paura di barattare, con un’imprecisata entità urbana, la propria condizione di libertà. Potremmo perciò concludere che, rispetto al non essere libero, egli preferisca non essere ancora, magari mai.
E allora, così come il flâneur di Baudelaire si immergeva tra apparizioni e apparenze per catturare frammenti sfuggenti della vita di estranei senza fermarsi a conoscerli mai, il vagabondo di oggi è estraneo in qualunque luogo ed è straniero agli occhi di tutti i vagabondi che incontra per strada, perché in città ciascuno è straniero. Ciascuno è solo mentre cammina in cerca di rifugio, ma sfugge nel frattempo da esso e dal pericolo che qualsiasi tipo di radicamento porta in sé.
Partendo perciò dal flâneur, dal camminatore solitario per eccellenza, e dalle sue ben distanziate interazioni urbane, dal suo sguardo non coinvolto ma allo stesso tempo dedito agli eventi episodici, possiamo raccontare come, in una città di stranieri quale quella attuale, si può sperimentare la liberazione da se stessi solo mettendo in mostra la propria superficie, e null’altro, come fossimo merce da supermercato.
Persi però sul tessuto urbano, tra molti più occhi stranieri di quanto potessimo immaginarci, si teme a ogni passo, essendo la strada una continua esposizione a rischi e fratture. Ed è per questo che, tra un rischio di incontrare (o di scontrare) e uno di essere, l’anima, a un certo punto, sogna il rifugio di una casa.
Perciò partendo dal principio, o meglio da un punto imprecisato dell’inizio (perché la fine e l’inizio sono, nella dimensione urbana, più relativi che mai), sulle tracce dell’antenato viandante cittadino possiamo, attraverso la lezione di Bauman, arrivare praticamente a noi per accorgerci che siamo tutti stranieri in cerca di casa; slegati, sciolti, sconnessi, restii a ogni costruzione e costrizione, ma volti segretamente e teneramente all’appartenenza. straniero