Nell’ultimo fine settimana di gennaio, presso La Scugnizzeria di Melito, libreria alla periferia nord di Napoli, è arrivata La felicità umana, un film documentario di Maurizio Zaccaro dedicato al discorso su uno dei temi più sentiti e dibattuti di sempre: che cos’è la felicità e quali sono le motivazioni personali nonché le condizioni economiche, sociali e politiche che la rendono possibile.
Organizzata e condotta da Rosario Esposito La Rossa e Maddalena Stornaiuolo, sempre entusiasti di condividere con gli altri la loro “scommessa” culturale e sociale, la serata ci ha permesso di partecipare all’inchiesta cinematografica di Zaccaro, che è un vero e proprio viaggio alla ricerca delle persone che si interrogano e soprattutto dei luoghi dove si discute e si organizza la vita sociale.
Con il pacato commento del regista Bruno Bozzetto, che ci parla della possibilità reale di momenti di felicità, e la puntuale analisi del filosofo francese André Comte-Sponville, che si sofferma sull’attuale crisi mondiale dovuta agli attacchi del terrorismo islamico estremista, il film ci accompagna dentro la vita quotidiana di tante zone del mondo dove i conflitti di varia natura sembrano negare ogni possibile felicità.
Serge Latouche, il filosofo ed economista francese teorico della decrescita, richiama la nostra attenzione, invece, su quella impostura della modernità che ci ha fatto la promessa di una felicità “pubblica” più che individuale, ben presto tradita dall’economizzazione dallo sviluppo del capitalismo, con il dominio del mercato e l’indice feticcio della ricchezza: il PIL, il prodotto interno lordo pro-capite. Quello stesso indice che è stato sempre spacciato per un indicatore della qualità della vita collettiva e che invece – come disse Robert F. Kennedy in un famoso discorso agli studenti dell’Università del Kansas nell’aprile del 1968, pochi mesi prima di essere assassinato – misura tutto tranne ciò che rende la vita degna di essere vissuta.
Il regista ci sorprende di nuovo portandoci, all’improvviso, in quella che si auto-definisce come la nazione più felice del pianeta: la Danimarca, dove le differenze tra ricchi e meno ricchi sono minori che in altre parti del mondo. A Copenaghen esiste anche l’Istituto della Felicità, dove si tenta di comprendere quali sono i fattori economici e sociali e le caratteristiche psicologiche individuali che favoriscono la difficile composizione tra il benessere individuale e quello collettivo.
Intanto, le drammatiche immagini dell’odissea contemporanea dei profughi, che scappano dalla povertà e dalla guerra presenti nel mondo, ci scorrono dinanzi e il malessere prende tutti in sala quando sullo schermo appare il regista tedesco Markus Imhoof che ci racconta della grande difficoltà di mostrare e far parlare i diversi protagonisti di una delle più grandi tragedie dell’età contemporanea. Ci dice ancora che ad affascinarlo di più è la scoperta della “nostalgia” presente nei discorsi dei migranti e che il nucleo di questo sentimento si riferisce alla figura della “mamma”, fisicamente e particolarmente indicata in quella madre che molti di loro sperano, tornando un giorno ai loro Paesi di origine, di rivedere prima che muoia.
Il diritto alla ricerca della felicità, che è uno dei passaggi teorici più belli, per esempio, della Carta costituzionale degli Stati Uniti d’America, viene così svilito e tradito continuamente dalle pratiche sociali e politiche del sistema-mondo in cui viviamo dove le merci hanno libertà di viaggiare, mentre si ritiene meglio per molti degli esseri umani, quelli più poveri naturalmente, che restino dove si trovano.
È il mercato il motore delle politiche economiche da cui siamo governati, ci ribadisce José Pepe Mujica, ex Presidente dell’Uruguay, un sistema caratterizzato dall’iperconsumo che ha aggredito il pianeta, portandoci nel circolo vizioso di una civiltà dell’usa e getta. L’economista indiana Vandana Shiva gli fa eco, sostenendo i diritti delle popolazioni a difendere i beni elementari della loro esistenza materiale e collettiva: l’acqua e i semi dei contadini, per esempio, che la globalizzazione affaristica mondiale vorrebbe privatizzare con il solito “mantra” occidentale dell’inarrestabile bisogno della crescita economica a tutti i costi. Nascondendo peraltro la contraddizione, ma forse la follia, di uno sviluppo senza limiti in un pianeta dalle grandi risorse, ma pur sempre limitate.
È ancora Serge Latouche a sintetizzare questo nodo problematico dei nostri tempi tristi affermando che una società in cui le disuguaglianze sono molto sviluppate non è una società felice, perché la crescita genera redditi e salari più alti, ma distrugge le relazioni sociali.
Il film di Zaccaro – presentato con successo di critica e pubblico al Torino Film Festival del 2016 – è una miniera di immagini e parole intorno alla felicità che ha il pregio di non proporre “ricette” sociali e politiche, ma riesce a smontare alcune superficiali certezze e offre tanti spunti di riflessione, tra i quali vogliamo citare quello della regista Ariane Mnouchkine. Quasi alla fine del documentario, l’artista ci dice che la felicità è come la festa. E qual è il momento più bello della festa se non quello della preparazione della festa stessa?
Una bella serata a La Scugnizzeria di Melito, insomma, tra tanta gente che non ha paura di rivedere le vecchie convinzioni culturali e gli stili di vita sociale consolidati, affinché in futuro, forse, un’altra festa e un altro mondo siano possibili.