Il 31 ottobre, dalla rivista Infiniti Mondi, si è tenuto al PAN di Napoli un incontro sugli aspetti, poco noti, di Pietro Ingrao come poeta. Alla generazione di Ingrao, quella nata in Italia dopo la fine della Prima guerra mondiale, appartengono Franco Fortini, Giorgio Caproni, Leonardo Sinisgalli, Paolo Volponi, Ottiero Ottieri, Elio Vittorini, Pier Paolo Pasolini, Luigi Pintor – il più fine traduttore di Rilke –, Emanuele Severino, Aldo Masullo, Roberto Vacca e vari altri che hanno contribuito alla crescita umana e civile non solo dell’Italia.
Sono maestri sui quali si è educata la generazione nata negli anni Quaranta-Cinquanta, dunque quella venuta al mondo dopo un’altra guerra. Protagonisti di un umanesimo dal lungo rumore di fondo, per i quali la poesia era un modo d’essere naturale, la forma più forte di comunicazione sociale. Non tenevano in conto la distinzione, fondata sul taylorismo e sull’ideologia borghese, tra umanesimo e tecnologia.
Leggendo Ingrao ho pensato a un testo di poesia apparso sulla rivista Pace & Guerra, di Rossanda e Castellina. Fu scritta da un sudamericano di cui non ricordo il nome ma ricordo l’argomento, che è questo: due uomini si presentano. Il primo dice che sa sturare lavandini, che sa fare il falegname, coltivare la terra, tenere comizi, fare calcoli infinitesimali e così via. Rivolto al secondo, gli chiede: «E tu, che fai?» Questo risponde: «Scrivo poesie ». «Oh, anch’io – ribatte il primo – ma solo la domenica ».
Il titolo di questo testo era Il Trasformatore: un poeta della domenica, del tempo libero, l’illo tempore della riflessione e della sintesi ma sempre rivolto alla e travolto dall’azione. Il vero poeta della domenica, pertanto, era quello che sapeva solo scrivere poesie. Poetica e stile di Ingrao non sono contaminati dalla retorica dell’impegno civile, peraltro praticato quotidianamente in politica, ma tendono a relazionare, con apparente semplicità, l’esperienza del reale, con risultati spiazzanti che modificano la percezione ordinaria del mondo, che trovano varchi e interstizi fra i nessi del pensiero.
Non è raro intercettare nei suoi versi lo sforzo di comprendere come e perché, alla Lautréamont, la realtà si presenta come un tavolo operatorio con sopra un ombrello e una macchina per cucire. Il poetare era per lui un modo per rallentare l’entropia della mente sociale elaborando strategie cognitive.
Nella densa relazione di Alberto Olivetti al PAN, questi aspetti, insieme con le radici dotte del suo poetare – per esempio, l’ironia del Burchiello – sono stati messi in evidenza, così come il suo riserbo. L’uomo, dunque, era innanzitutto un faber, agito e agitato dalla febbre del fare, un poeta visibilmente invisibile. Gli addetti ai lavori erano a conoscenza del suo interesse per il linguaggio e aspettavano, come Luciano Anceschi, di leggerlo.
Le edizioni Mondadori delle sue poesie contengono testi scritti anche cinquanta anni prima, il che dimostra che, quando vera e reale, la poesia è fuori dalla cronaca e appartiene alla storia. Le sue raccolte compongono un flusso poematico unitario, la cui eco è stata riprodotta dalle letture, alternate e in continuum, di Rosanna Bonsignore, Ariele D’Ambrosio e Wanda Marasco.
Carlo Faiello (chitarra), Pasquale Nocerino (violino) e Monica Marra (vocalist), in coerenza con la poetica di Ingrao, hanno scelto di eseguire dal loro repertorio Argiento vivo, testo di ribellione, ’A vita è comm’ ’o mare, lirica d’amore, Eppure, poesia di Ingrao musicalmente inedita, di carattere politico e tradotta in lingua napoletana.