La fase 2 dell’emergenza sanitaria è iniziata da appena una settimana, portando con sé un flebile ritorno alla normalità che tutti aspettavamo. Più di 4 milioni di italiani sono infatti rientrati al lavoro e numerosi sono stati gli allentamenti delle misure limitative della libertà personale, anche nel senso di recuperare rapporti familiari e affetti che hanno subito le conseguenze del lockdown. Le novità maggiori hanno comunque riguardato l’ambito lavorativo e, se tanti speravano che il periodo vissuto potesse servire per riflettere sugli errori commessi e non ripeterli, i dati di queste prime ore ci smentiscono categoricamente.
Siamo tornati alla triste realtà delle morti sul lavoro: è esemplificativo che in soli pochi giorni di riapertura ben 4 uomini abbiano perso la vita e moltissimi siano già i feriti. Un uomo di 55 anni è deceduto in un’esplosione che ha coinvolto una fabbrica a Ottaviano, in provincia di Napoli; un operaio trentenne, a Livorno, è stato travolto dal camion della ditta per cui stava lavorando al taglio di alcuni alberi; a Roma, un operaio è stato schiacciato da un muletto che si è ribaltato. E, ancora, a Trecate, un uomo è morto cadendo da un’impalcatura. A questi vanno aggiunti due uomini che hanno perso la vita a Pistoia e Ferrara a bordo dei trattori che stavano utilizzando per lavorare le campagne, pare per motivi di carattere tecnico. Una lista che si è tristemente allungata in questi ultimi anni: basti pensare che il 2019 si è concluso con 997 persone morte mentre svolgevano il proprio lavoro, un dato persino più basso del 2018! Ben 59mila, invece, sono le denunce di infortunio pervenute all’INAIL per lo stesso periodo. Oltretutto, si è registrato un notevole aumento delle patologie di origine professionale.
Questi dati ci confermano che la sicurezza sui posti di lavoro è oramai un lusso per molti. Non si può non pensare, infatti, che per la maggior parte di tali avvenimenti non fosse possibile fare qualcosa per evitarli, come se il destino o il caso fortuito ci avessero sempre messo lo zampino. Inoltre, la precarietà economica dell’ultimo periodo costringe i lavoratori, soprattutto se operai o manovali, ad accettare condizioni non rispettose del loro diritto alla salute e alla sicurezza pur di guadagnare qualcosina. Poiché, se ti capita di alzare la testa e pretendere di lavorare senza la paura di non tornare a casa dalla tua famiglia, subisci le solite ripercussioni e rischi anche che al tuo posto ci mettano un altro costretto ad accettare le ingiustizie.
Ma le notizie dei morti e dei feriti sui luoghi di lavoro non sono le uniche che ci confermano quanto la legge del profitto prevalga sulla tutela della salute e dell’essere umano in generale. Nonostante abbiamo appena attraversato – e stiamo ancora attraversando – un periodo che avrebbe dovuto insegnarci quanto è preziosa e sacra la vita, l’uomo non perde occasione per comportarsi spregevolmente, soprattutto se si tratta di devastare l’ecosistema che vive già una tragedia immane. Sono note a tutti le immagini del fiume Sarno, in Campania, circolate in questa settimana: durante il lockdown era diventato nuovamente limpido per l’assenza degli sversamenti abusivi di imprenditori senza scrupoli, ma è bastato un solo giorno di ripresa dell’attività e le sue acque sono tornate a intorbidirsi, recuperando velocemente il triste primato di fiume più inquinato d’Europa. La stessa sorte è toccata alle acque del litorale domitio, in provincia di Caserta, invase dopo soli due giorni da un’enorme macchia nera e putrida.
Corriamo gli stessi rischi per quanto riguarda i tassi d’inquinamento dell’aria: se durante gli ultimi due mesi si sono abbassati notevolmente i livelli di polveri sottili e biossido d’azoto, molto probabilmente con la riapertura di tutte le aziende essi risaliranno poiché ci si nasconderà dietro la necessità di recuperare le perdite economiche, approfittando di un’ulteriore occasione per agire in barba alle norme. Nessuno sembra rendersi conto che quella ambientale è un’emergenza pericolosa quanto il virus che ci ha spaventato così tanto ma per la quale non viene presa alcuna decisione, probabilmente perché si preferiscono nascondere gli effetti non immediati sotto il tappeto. Triste testimonianza della realtà a cui stiamo tornando è la nube nera e tossica che ha occupato il cielo di Napoli la scorsa domenica: un rogo di rifiuti e materie plastiche, che non fanno altro che acuire i rischi per la nostra salute. E così la natura, che durante il lockdown era riuscita a recuperare spazi che le sono propri, adesso ha la peggio: è certo che non rivedremo nella fase 2 animali che riconquistano luoghi, oltre che possibilità di sopravvivenza, come avviene ogni volta che l’uomo è costretto a ridurre la sua distruttività.
Con il ripristino della quotidianità, inoltre, molto probabilmente aumenterà la mobilità privata a causa delle limitazioni imposte dalle misure sanitarie in termini di capienza dei mezzi pubblici. Mezzi che non è certo reggeranno i numeri di pendolari che avranno bisogno di ritornare a spostarsi per raggiungere i posti di lavoro. La prima misera dimostrazione è arrivata da Napoli nelle prime ore successive al lockdown: immagini della cumana delle 7 di mattina la mostrano affollatissima e in condizioni tali da sbeffeggiare qualsiasi norma sul distanziamento sociale. Eppure, il Presidente della Regione Vincenzo De Luca, sempre pronto a sindacare le scelte e le attività dei cittadini, non ha avuto nulla da ridire al riguardo – considerato che la gestione del servizio dei trasporti ricade sotto la sua responsabilità – né alcuna dichiarazione è stata rilasciata per quanto concerne gli inquinamenti dell’acqua fluviale e marittima che hanno visto la Campania protagonista.
Ancora una volta, abbiamo la dimostrazione che quando non è possibile addossare la colpa ai cittadini ma bisogna ricercare precise responsabilità politiche, si fanno orecchie da mercante, si lascia che la gente si dimentichi e poi dopo qualche giorno si ritorna con un sermone ai runner (a meno che non siano ragazze avvenenti, si intende), alle famiglie che passeggiano, a quei giovani che non hanno proprio capito quello che stiamo vivendo. E, allora, può darsi che i ragazzi non abbiano capito precisamente cosa stiamo vivendo, ma molto più probabilmente non hanno compreso perché un tal senso di responsabilità viene chiesto loro da chi per primo non se ne fa portatore, da chi ha costruito un sistema in cui è necessario indietreggiare quotidianamente sul terreno dei diritti se si vuole procedere sul terreno della sopravvivenza, un sistema in cui il lavoro equivale a sfruttamento e in cui la legge del profitto vince su tutto, anche sulle vite umane.
Forse, prima di avviarci intrepidi verso la fase 2 avremmo dovuto chiederci che tipo di fase 2 vogliamo. Vogliamo tornare alla normalità che ci ha reso schiavi dell’intolleranza, del sospetto, del desiderio di prevalere sempre e comunque, anche a discapito di tutti gli altri? Vogliamo davvero tornare alla realtà di padroni e schiavi in cui siamo piombati troppo tempo fa?