Qualche settimana fa, a pochi giorni dal Natale, Elena e Margherita, due studentesse toscane diciassettenni, si sono viste recapitare una multa di 4mila euro per aver manifestato, il 16 ottobre, insieme ai lavoratori della Tintoria Superlativa di Prato. La sanzione è stata comminata per il reato di blocco stradale – reintrodotto dal Decreto Sicurezza Bis diventato definitivo il 5 agosto 2019 –, e faceva riferimento a un picchetto organizzato fuori dall’azienda a conduzione cinese nell’ambito di una lunga vertenza che i dipendenti portano avanti da mesi per far rispettare i loro diritti reiteratamente violati.
Gli operai, seguiti dal Sindacato S.I. Cobas, infatti, non percepiscono lo stipendio da tempo e, come se non bastasse, sono costretti a turni di dodici ore, sette giorni su sette. L’azienda, inoltre, non è nuova a denunce e controlli. Basti pensare che durante uno dei questi sono stati trovati addirittura dei loculi in cui i lavoratori sono stati costretti a dormire tra un turno estenuante e l’altro. Il tutto, però, si è risolto sempre in semplici multe, fino a quando i dipendenti, qualche mese fa, hanno deciso di scioperare e una sindacalista è stata investita da un tir che, uscendo dallo stabilimento, ha forzato il sit-in di protesta.
Elena e Margherita, come spiegano nella lettera aperta che hanno inviato al giornale La Nazione, una volta appresa la notizia, hanno quindi ritenuto giusto, la mattina del 16 ottobre, schierarsi al fianco degli operai e della donna rimasta ferita: «Non pensavamo che chiedere il rispetto di un contratto potesse essere criminale», eppure le sanzioni che hanno ricevuto sembrano dire il contrario. La loro lettera ha permesso di porre in risalto la vicenda e di sottolineare che anche gli stessi lavoratori, per la maggior parte pakistani e africani, sono stati multati in quanto, manifestando, avrebbero impedito la libera circolazione e la sicurezza dei trasporti. Ma può questo richiedere il sacrificio della libertà di espressione e del diritto allo sciopero, entrambi costituzionalmente garantiti, rispettivamente dagli articoli 21 e 18?
Il Decreto Legge 53 del 2019, fortemente voluto dall’ex Ministro dell’Interno e accettato di buon grado dal governo attualmente in carica, non fa altro che criminalizzare il dissenso giustificando le sue disposizioni con l’esigenza di garantire manifestazioni pacifiche. Oltretutto, con gli sbarchi e i reati in calo nell’ultimo anno, i requisiti di necessità e urgenza, in mancanza dei quali un decreto legge non potrebbe essere emanato, risultano essere venuti meno. Un decreto, quello di Salvini, che dunque potrebbe non superare il vaglio di costituzionalità. Le nuove disposizioni, inoltre, irrigidiscono addirittura il Testo Unico di Pubblica Sicurezza di epoca fascista, inasprendo le pene per chiunque compia violenza o minaccia a un pubblico ufficiale, resistenza a un pubblico ufficiale, violenza o minaccia a un corpo politico, amministrativo o giudiziario, o a uno dei suoi componenti, interruzione di ufficio o servizio pubblico o di pubblica necessità.
Quella di Prato è stata una delle prime applicazioni del Decreto Sicurezza Bis che intacca diritti sulla base di indimostrate emergenze criminali e sociali, ponendosi in un solco già tracciato da precedenti provvedimenti legislativi che non hanno saputo fare altro che trattare il tema della sicurezza e dell’immigrazione comprimendo diritti e garanzie che dovrebbero essere intoccabili. Così, come sottolinea il movimento Inoltre, il problema della nostra sicurezza non può di certo essere individuato in 21 lavoratori sfruttati e sottopagati. Per questo anche Potere al Popolo sostiene la campagna dei dipendenti della tintoria per chiedere la cancellazione delle multe nell’ambito della campagna Liberi dai Decreti Salvini. Prato sta con gli operai.
La criminalizzazione di forme di dissenso e di conflitto sociale, che dovrebbero essere considerati elementi essenziali della democrazia, tuttavia, non è una novità nel nostro Paese. In particolare, le manifestazioni e gli scioperi sono da sempre vissuti con grande preoccupazione, ancor di più di recente, considerato il clima d’odio che si respira. L’ultimo esempio è di pochissimi giorni fa: l’arresto di Nicoletta Dosio, militante NO TAV della Val di Susa condannata a un anno di carcere per un blocco stradale cui aveva partecipato nel 2012, per essersi opposta alla costruzione della linea ad alta velocità Torino-Lione. E così, ancora una volta, lo Stato ha risposto alle domande di giustizia ambientale e sociale reprimendo e condannando gli uomini e le donne che ne sono portatori.
Ciò che appare chiaro è che fa paura chi si riunisce per strada per manifestare, fa paura chi decide di mettere in pratica il proprio pensiero critico. Non è un problema di sicurezza né di libera circolazione o di continuità dei pubblici servizi, si tratta di palesi attacchi all’inviolabile libertà personale. E un Paese che tenta di arginare il conflitto sociale attraverso un sistema penale repressivo e punitivo, non è un Paese che può definirsi realmente democratico. Piuttosto, è un Paese che preferisce a dei consapevoli cittadini, un gregge di accondiscendenti sudditi.