Pochi giorni fa, la Corte Costituzionale ha diffuso un comunicato stampa con il quale ha anticipato il contenuto della sua pronuncia riguardante la questione di legittimità costituzionale sollevata in merito alla disciplina dell’ergastolo ostativo, precisamente nella parte in cui preclude in maniera assoluta al condannato per reati di mafia di accedere al beneficio della liberazione condizionale – che si può ottenere dopo aver espiato 26 anni di pena – a meno che questo non collabori con la giustizia.
Come messo in evidenza dalla Consulta, tale preclusione assoluta opera anche laddove il ravvedimento risulti sicuro. Da ciò discende che la disciplina, facendo della collaborazione con la giustizia il solo strumento a disposizione del condannato per riacquistare la libertà, risulta in contrasto con gli articoli 3 e 27 della Costituzione e con l’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. In particolare, a risultare violato è il fine rieducativo della pena, inteso come risocializzazione del reo finalizzata al suo rientro in società, che in questo caso non può avvenire in alcun modo.
La Consulta ha però aggiunto che, pur riconoscendo l’illegittimità costituzionale della disciplina, l’accoglimento immediato delle questioni rischierebbe di inserirsi in modo inadeguato nell’attuale sistema di contrasto alla criminalità organizzata. Ha dunque invitato il Parlamento a disciplinare nuovamente la materia entro un anno, rinviando la pronuncia a maggio 2022, e il legislatore a rimodellare la disciplina in modo da renderla compatibile con i principi costituzionali e allo stesso tempo da non compromettere l’efficacia del sistema di contrasto alla criminalità organizzata.
Per comprendere le finalità della disciplina di cui all’articolo 4 bis della legge sull’ordinamento penitenziario e l’impatto della pronuncia, bisogna partire dalla sua origine e, innanzitutto, da una precisazione: del termine ergastolo ostativo non si ha alcuna traccia nelle leggi poiché esso è stato coniato dalla dottrina per distinguere tale regime da quello del cosiddetto ergastolo comune in cui, pur essendo anche questo caratterizzato da un fine pena mai – su cui ci sarebbe comunque molto da dire –, resta possibile un progressivo miglioramento del trattamento penitenziario. Tale regime viene introdotto nel 1992 quando, all’indomani della strage di Capaci e dei tragici delitti di quel periodo, il legislatore propende per un’attenuazione del principio rieducativo della pena. Inasprisce così l’articolo 4 bis dell’ordinamento penitenziario, con il fine di vincere l’omertà dei condannati per reati di mafia, terrorismo ed eversione, negando loro i benefici carcerari. Una disciplina d’emergenza, dunque, che tuttavia ha preso stabilmente posto nel nostro ordinamento e in cui l’esclusione di qualsiasi beneficio si fonda su una presunzione assoluta di pericolosità del condannato, vincibile però con la collaborazione utile di quest’ultimo con la giustizia.
Come abbiamo già avuto modo di sottolineare in occasione della pronuncia del 2019 della Consulta riguardante i permessi premio preclusi agli ergastolani in regime ostativo, non si può ancorare la valutazione riguardante il percorso di rieducazione del condannato esclusivamente alla sua scelta di non collaborare, facendone discendere la certezza in ordine alla persistenza dei legami con l’associazione criminale. Il rifiuto, infatti, può dipendere da fattori diversi tra loro, tra cui la paura di subire ripercussioni per sé o per i propri cari. Allo stesso modo, la decisione di essere “un pentito” – come si usa dire nel gergo comune – non ci fornisce alcuna certezza in ordine al percorso risocializzante del reo, che potrebbe essere stato spinto da una semplice volontà opportunistica. Il rapporto detenuto-istituzione penitenziaria prosegue all’interno di una logica di do ut des che nulla ha a che vedere con una reale rieducazione.
Tra i benefici negati agli ergastolani in regime ostativo ci sono – oltre alla liberazione condizionale – la liberazione anticipata, il lavoro all’esterno, la semilibertà e i permessi premio. Riguardo a questi ultimi la Corte Costituzionale si è pronunciata nel 2019, stabilendo l’illegittimità della disciplina. Dunque, non è la prima volta che si mette in dubbio la validità costituzionale di una preclusione assoluta – l’ultimo esempio è dato dalla recentissima pronuncia riguardante l’esclusione della detenzione domiciliare per gli ultrasettantenni condannati con l’aggravante della recidiva – poiché essa non permette una valutazione del giudice e contrasta con il principio di personalizzazione e individualizzazione del trattamento penitenziario alla base del nostro ordinamento.
Tale pronuncia della Consulta è frutto di un tortuoso cammino riguardante la materia, rispetto alla quale i giudici costituzionali hanno mantenuto per anni un orientamento consolidato e difficile da scalfire. La questione di legittimità costituzionale fu infatti respinta sia nel 2003 che nel 2013 poiché si sostenne che non si trattava di un automatismo né di un’esclusione definitiva in quanto al condannato restava sempre la possibilità di cambiare idea e collaborare. Tale consolidato orientamento iniziò a vacillare quando, nel 2018, la Corte Costituzionale sancì l’illegittimità dell’articolo 58 quater della legge sull’ordinamento penitenziario che stabiliva, in modo analogo a quanto avviene per l’ergastolo ostativo, una preclusione assoluta dei benefici penitenziari per gli ergastolani condannati per talune tipologie di reati.
Ciò, infatti, non crea solo una disparità con gli ergastolani cosiddetti comuni, ma intacca il principio di rieducazione del reo su cui si basa – o dovrebbe basarsi – l’intera disciplina penitenziaria. Grande importanza ha assunto, sul tema, anche la pronuncia della Corte di Strasburgo nel caso Marcello Viola contro Italia, in cui si è affermato chiaramente che la disciplina riguardante l’ergastolo ostativo e il divieto di rientrare in società per il reo ledono il principio di dignità umana.
Senza mettere in dubbio la necessità di tutela e sicurezza della collettività, quanto stabilito dalla Corte Costituzionale lascia qualche perplessità: da un lato, si sceglie di lasciare in vigore per un ulteriore anno una norma di cui si è già accertata l’illegittimità, dall’altro – analogamente a quanto avvenuto per il caso Cappato – si chiede al Parlamento di intervenire in maniera adeguata. Purtroppo, non è la prima volta che il legislatore rimane inerme di fronte a simili inviti, dunque il rischio è quello di un vuoto normativo a cui si potrà difficilmente porre rimedio, lasciando nel dubbio tutti coloro che stanno scontando una pena senza sapere quale sia la disciplina loro applicabile.
Sicuramente dovrà venir meno il presupposto per il quale il difetto di collaborazione sia indice invincibile di pericolosità sociale. Tuttavia, al momento non disponiamo di direttive più specifiche su come modificare la disciplina e non sappiamo se esse siano presenti all’interno delle motivazioni non ancora depositate.
Ci auguriamo che il legislatore provveda al più presto a mettere al centro del dibattito il tema e lo faccia in maniera rispettosa della dignità umana. Se la permanenza di un soggetto in carcere non risponde più ad alcun principio rieducativo, la pena diventa mera punizione che non dovrebbe essere ammessa nel nostro ordinamento.