Di storie di popoli discriminati per la loro etnia o per la religione ce ne sono tante. L’umanità si è quasi abituata ai racconti di genti senza terra, scacciate e sradicate dalla loro patria. Sono racconti che non sorprendono più, non davvero, anche se a volte sorprende che a essere discriminati non siano sempre gli stessi, che non esista un vero popolo inferiore. Perché in fondo la discriminazione, quando ne ha l’occasione, approfitta della maggioranza per abusare degli svantaggiati. I Rohingya sono la sfortunata minoranza musulmana del Myanmar, l’ex colonia britannica. Perseguitato nel Paese in prevalenza buddista, oltre un milione di persone è fuggito dalla patria che non lo ha mai voluto per rifugiarsi in un’immensa baraccopoli sul territorio bengalese.
La tragica storia dei Rohingya ha origini lontane: sembra che popolazioni musulmane abbiano abitato le regioni del Myanmar già a partire dal XIV secolo ma, nonostante le antiche radici, non è ancora stato trovato uno spazio per il popolo sfortunato. A quelli rimasti in terra birmana non solo è negata la cittadinanza, ma sono applicate norme restrittive che violano i diritti umani. A partire dal 2016 le violenze sono diventate insostenibili e nel 2017, tra l’orrore di frequenti omicidi e stupri, è stato messo in atto un vero e proprio genocidio, tanto che nell’agosto di quell’anno è iniziata la fuga di 700mila rifugiati Rohingya verso il Bangladesh.
Da alcuni mesi la comunità internazionale ha iniziato a fare pressioni sulla Corte di Giustizia perché prendesse provvedimenti, ma nel corso dei mesi precedenti anche l’ONU, che aveva già condannato il Myanmar, aveva dichiarato le difficoltà di occuparsi della delicata questione. Finalmente, però, lo scorso 23 gennaio L’Aja ha concluso l’inchiesta in corso e ha ordinato al governo birmano di garantire la protezione dei Rohingya, di conservare le prove relative alle accuse di eccidio e di consegnare un rapporto periodico sulle misure adottate. La Corte ha quindi accusato formalmente di genocidio il Paese e i suoi leader, tra cui anche Aung San Suu Kyi. Figura controversa, la donna aveva vinto il Nobel per la Pace nel 1991, ma lo scorso dicembre ha negato le denunce mosse al Myanmar, sollevando dei dubbi sulla sua integrità, tanto da convincere l’ONU a chiedere la revoca – non attuabile – del prestigioso riconoscimento.
A segnalare con insistenza la questione a ONU e L’Aja è stato principalmente il Gambia, che ha parlato a nome dell’Organizzazione della cooperazione islamica, di cui fanno parte 57 Stati a maggioranza musulmana. Lo scorso novembre, il piccolo Paese dell’Africa occidentale ha accusato il Myanmar di aver violato il trattato generale contro il genocidio e ha sostenuto che i Rohingya rimasti in patria sono ancora in pericolo. L’iniziativa gambiana, oltre ad accendere i riflettori sul Myanmar, ha anche rappresentato un riscatto morale per il Paese, che era stato tra i principali violatori dei diritti umani fino al 2016, quando la leadership è cambiata, dimostrando una sorprendente inversione di marcia.
Intanto, mentre la comunità internazionale discute sul da farsi e i provvedimenti vengono presi con estrema lentezza, i Rohingya abitano in un campo profughi. Non si trovano lì solo come rifugiati, rintanati in Bangladesh per sfuggire alle angherie subite in patria, non proprio. Perché in realtà una patria vera non ce l’hanno e la loro unica casa è Cox’s Bazar. Si tratta del campo profughi più grande al mondo: ospita circa un milione di rifugiati, di cui gran parte giovani e minorenni alle prese con condizioni di vita al limite dell’umanità. Solo un quarto dei rifugiati ha accesso a servizi sanitari, la criminalità e il contrabbando dilagano.
È difficile mantenere l’ordine quando le condizioni di vita sono pessime e non esiste uno Stato che faccia la sua parte. Questo perché lo Stato che avrebbe dovuto prendersene cura li ha perseguitati. La stessa casa dei Rohingya li ha rigettati come corpi estranei, li ha tormentati e cacciati. Li ha accusati di terrorismo per giustificarne le angherie, facendo del loro credo un’ottima scusa per perseguitarli. E, ancora una volta, davanti ai diritti sono state messe le ragioni politiche. Le discriminazioni su base etnica e religiosa, discriminazioni senza una vera base, hanno vinto e continuano a vincere, distruggendo vite e rendendo il nostro mondo ancora molto lontano dall’essere perfetto.