È di poche settimane fa la notizia che il Dipartimento di Amministrazione Penitenziaria ha elaborato una nuova circolare per ridisegnare la vita degli istituti penitenziari, e in particolare dei circuiti di media sicurezza. Iniziamo con il dire che essi contengono la maggioranza delle persone recluse, tra le 35mila e le 40mila, cioè di tutte quelle che da un lato non necessitano della stringente sorveglianza, giustificata dalla particolare pericolosità sociale delle persone coinvolte – che troviamo nei circuiti di alta sicurezza –, ma che, dall’altro, non sono in una condizione tale da giovare della custodia cosiddetta attenuata, riservata solitamente alle madri con bambini e a tossicodipendenti che però non rappresentino alcun pericolo.
La suddivisione in circuiti è frutto essa stessa di circolari del DAP intervenute negli anni passati e nasce dall’esigenza di differenziare il trattamento e l’attuazione concreta delle regole penitenziarie in ragione delle persone detenute cui ci si rivolge. Senza voler entrare nel merito delle scelte effettuate in quanto a criteri di assegnazione e di valutazione delle personalità coinvolte, appare subito evidente che la materia è molto scivolosa, frutto di continue interpretazioni interne di clausole vaghe che possono condurre a condizioni di vita molto diverse da istituto a istituto, in ragione della maggiore o minore apertura della direzione, della disponibilità del personale e addirittura della sensibilità degli operatori penitenziari.
La circolare di cui parliamo si propone di suddividere il circuito di media sicurezza in sezioni ordinarie e sezioni a trattamento avanzato. È proprio nelle prime che si rischia di fare un grosso passo indietro poiché i detenuti sarebbero destinati a rimanere nelle proprie celle quasi per l’intera giornata, fatta eccezione per le otto ore previste per la permanenza all’aperto e/o lo svolgimento delle attività rieducative e ricreative previste all’interno dell’istituto. Si abbandonerebbe così, per tali sezioni, la cosiddetta sorveglianza dinamica, introdotta proprio al fine di rendere maggiormente vivibili i penitenziari, soprattutto alla luce della Sentenza Torreggiani con la quale nel 2013 la CEDU condannava l’Italia per la condizione cronica di sovraffollamento delle sue carceri, che ledeva i diritti fondamentali delle persone ivi detenute.
Essa si inserisce, infatti, nella scia delle numerose riforme di quegli anni finalizzate a evitare nuove sanzioni, permettendo così di applicare in via progressiva, partendo dal circuito a custodia attenuta e arrivando poi alle sezioni di media sicurezza, la prassi delle cosiddette celle aperte. Lo spazio delle persone recluse non è più circoscrivibile alla sola camera di pernottamento, bensì all’intera sezione e, se possibile, anche al di fuori di essa, ridisegnando quindi un nuovo rapporto tra custodi e custoditi. La sorveglianza dinamica consiste proprio nell’abbandonare il mero approccio securitario e statico per abbracciarne uno basato su conoscenza e fiducia, che quindi riesca a tenere insieme sicurezza e rieducazione. Dunque, chi viene ritenuto inidoneo a ricevere un trattamento avanzato sarà costretto a una chiusura che farà ripiombare il carcere nel passato. Una misura che si aggiunge alle innumerevoli chiusure delle sezioni già intervenute negli ultimi mesi a causa dell’emergenza pandemica in corso.
Non si tratta di una scelta irrilevante per le persone detenute poiché incide sulla loro qualità della vita e sui loro diritti: ciò che lascia maggiormente perplessi, però, è che essa non sia ancorata a parametri legislativi prestabiliti, ma che ancora una volta si faccia riferimento a valutazioni discrezionali che rischiano di creare trattamenti oltremodo differenziati. A ciò si aggiunga che pur trattandosi di aspetti fondamentali della vita detentiva, non è previsto alcun coinvolgimento del magistrato di sorveglianza. Questo è di per sé un problema che riguarda il diritto di difesa dei detenuti anche per altri aspetti, tra cui la mancata “impugnabilità” delle sanzioni disciplinari loro inflitte.
La cosa che a noi sembra fondamentale – e a cui invece il DAP nella sua circolare fa solo un vago riferimento – è che sarebbe necessaria l’assunzione di innumerevoli operatori e figure multidisciplinari che possano ridare nuova linfa alla detenzione, attualmente priva di qualsiasi senso. Come se non bastasse, la nuova circolare prevede anche l’istituzione di apposite sezioni cui destinare detenuti che vengono considerati difficili da gestire perché aggressivi o con un comportamento problematico. L’articolo 32 del Regolamento di esecuzione dell’ordinamento penitenziario prevede infatti che i detenuti e gli internati che abbiano un comportamento che richiede particolari cautele sono assegnati ad appositi istituti o sezioni dove sia possibile adottare suddette cautele. Tuttavia, la previsione contenuta nella circolare rischia di trasformare tali aree dell’istituto in veri e propri ghetti e luoghi di punizione in cui relegare senza alcun termine – se non quello di revisione della situazione semestrale – tutti coloro che manifestano problematiche nella convivenza con il resto della comunità carceraria, anziché predisporre interventi mirati per rendere anche per loro la detenzione vivibile, considerato che spesso si tratta di persone che hanno problemi di carattere psichiatrico.
Eppure, è in particolare proprio su quest’ultimo aspetto del documento che si sono soffermate le osservazioni del SAPPE (Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria) che ha richiesto l’integrazione della circolare suddetta nel senso di prevedere l’automatica assegnazione a tali sezioni chiuse per coloro che compiano anche una sola aggressione al personale. Lungi da noi voler disconoscere le difficoltà in cui la polizia penitenziaria e gli operatori in generale si trovano a operare, la soluzione non può essere un’indeterminata e soprattutto automatica – nelle osservazioni si legge senza alcuna preventiva valutazione e prescindendo dalla sanzione disciplinare – ulteriore privazione di spazio e diritti, che non porta a nulla di buono.
Il SAPPE chiede inoltre che, in seguito a tale assegnazione, la persona detenuta coinvolta, prescindendo anche stavolta da qualsiasi valutazione, debba necessariamente passare per una sezione ordinaria prima di poter accedere a una a trattamento avanzato, in un percorso che dovrebbe quindi durare almeno un anno. Si denuncia, da parte del corpo di polizia penitenziaria, un’indiscriminata apertura delle stanze detentive, senza alcun criterio meritocratico. Anche stavolta, ferma restando la complessità delle varie situazioni esistenti sul territorio nazionale, sono molteplici le modalità con cui i detenuti vengono “valutati” e sanzionati e, a seguito dell’emergenza pandemica, sono innumerevoli quelli che non si trovano in regime aperto e che soffrono la mancanza di offerte formative e rieducative negli istituti. Dunque, la soluzione può soltanto essere, ancora una volta, implementare il personale e rispettare quella promessa rieducativa enunciata dalla nostra Costituzione.
Bisogna inoltre sottolineare come quanto paventato dal DAP arrivi in un momento in cui era sperabile qualche passo in avanti per quanto riguarda la qualità della vita detentiva. La Ministra Cartabia ha, infatti, nominato un’apposita Commissione per l’innovazione del sistema penitenziario, finalizzata appunto a individuare interventi concreti per migliorare la vita dei detenuti e di coloro che operano negli istituti. E la miglioria non può certamente essere nella privazione ulteriore di diritti e opportunità che ritroviamo invece nella circolare incriminata e su cui ci auguriamo che l’amministrazione penitenziaria voglia tornare a riflettere.