Nel 1978, a trent’anni da Se questo è un uomo, opera che lo ha consacrato ai lettori di tutto il mondo, Primo Levi pubblica La chiave a stella con l’editore Einaudi. Dopo un’intera esistenza trascorsa a contatto con molecole ed elementi, sveste i panni del chimico per entrare in quelli dello scrittore a tempo pieno.
La chiave a stella, infatti, è il primo romanzo “di invenzione” che reca fieramente il suo nome in copertina. Nel 1966, anno di pubblicazione di Storie naturali, raccolta di racconti successiva a Se questo è un uomo e (almeno in parte) a La tregua, Levi si è nascosto dietro a uno pseudonimo. Per ritrosia e pudore, dopo essersi messo a nudo davanti al mondo raccontando l’esperienza nei campi di concentramento, infatti, ha considerato le prime prove letterarie come “divertimenti”: scritti poco seri che probabilmente non avrebbero avuto seguito. Storie naturali ha denunciato i vizi di forma del mondo reale imprimendo, nero su bianco, quella complicità tra scienze e lettere che avrebbe costituito un nodo imprescindibile nell’opera successiva di Levi.
La chiave a stella, invece, continua non solo a delineare il connubio tra mestieri apparentemente incompatibili, ma anche ad affrontare un tema centrale in tutta la narrativa dello scrittore torinese: il rapporto tra l’uomo e il lavoro. È interessante notare come l’opera remi in direzione contraria a tanta letteratura sull’industria nata in Italia qualche decennio prima. Nonostante il fil rouge dei quattordici capitoli sia il lavoro, infatti, la questione va fuori dai binari di quella letteratura di fabbrica che evidenzia e problematizza l’alienazione, la trasformazione dell’uomo in macchina, la schiavitù del lavoratore. Levi è convinto che […]l’uomo normale è biologicamente costruito per un’attività diretta a un fine (dall’intervista rilasciata a Philip Roth, pubblicata sul New York Times Book Review nel 1986 sotto il titolo di A man saved by his skills).
Il suo amore per il lavoro, la sua inestinguibile curiosità per tutto ciò che riguarda l’uomo, l’atavico legame tra il lavoro manuale e la materia si cristallizzano qui nelle storie di Libertino Faussone, l’operaio specializzato che gira il mondo insieme alla fedele chiave a stella e al suo bagaglio di esperienze e sogni.
Faussone e Levi, entrambi torinesi, si incontrano alla mensa di uno stabilimento russo di cui non si fa nome (in realtà, è la FIAT di Togliattigrad). Si intrecciano in un posto inospitale storie, aneddoti, proverbi, idee. I narratori provengono da due ambiti apparentemente differenti: Libertino detto Tino Faussone è un montatore di tralicci, ponti, gru, impianti petroliferi; Primo Levi è invece un chimico delle vernici. È Faussone che svolge il filo della storia, mentre Levi ascolta curioso e racconta di sé soltanto verso la fine. Dalle parole del montatore emerge con forza una fede incrollabile nel lavoro come condizione di umana salvezza. Tracciano un solco profondo le affermazioni disseminate nel romanzo: Io l’anima ce la metto in tutti i lavori. Per me, ogni lavoro che incammino è come un primo amore. Amare il proprio lavoro è, per Faussone, la migliore approssimazione concreta alla felicità sulla terra. Un privilegio riservato a pochi, certo, perché la realtà è un’altra e il montatore girovago lo sa bene: prima di partire all’avventura per costruire ovunque, è stato inchiodato alla catena di montaggio della FIAT. Lo scarto, poi, si avverte ancora di più se si prova ad attualizzare la storia.
Il bisogno di indipendenza e di realizzazione personale spinge lontano il montatore, come ha sempre desiderato il padre. Quest’ultimo compare in Batter la lastra: animato da un amore senza pari per la lavorazione del rame, continua a esercitare il mestiere anche a guerra finita, quando cominciano a circolare materiali meno costosi come l’alluminio. Muore impugnando gli strumenti di lavoro, nell’officina dove avrebbe voluto vedere anche il figlio. L’ultima immagine del racconto torna più volte: la chiave a stella, risolutrice di tutti i problemi, non viene mai abbandonata, anzi è come se fosse un prolungamento della mano di Faussone, così come la penna per Primo Levi. Un piacere, quello degli strumenti, che chi lavora alla catena non conosceva. Su questo Levi insiste in un’intervista rilasciata alla sua traduttrice tedesca, Barbara Kleiner: «Chi fa un lavoro in cui non si sbaglia mai è fuori della condizione umana. Chi fa un lavoro ripetitivo, meccanico, si pone fuori. Chiaro, capita a molti». E più avanti: «Volevo descrivere una condizione umana che non è quella, pure assai diffusa nel mondo di oggi, di chi è costretto ad un lavoro ripetitivo, ma di chi segue il destino antico, il destino di sempre, di colui il quale si misura con il mondo esterno attraverso il proprio lavoro». L’intervista viene pubblicata su una rivista tedesca con il titolo Bild der Unwurde und Wurde des Menchen, cioè Ritratto della dignità e della sua mancanza (letteralmente: indegnità, termine più crudo) negli uomini.
Nelle parole di Faussone non si fatica a trovare il pensiero dell’autore: oltre alla fortuna di mettere in pratica ciò che ha sempre studiato e approfondito, Levi ha sperimentato anche la disgrazia di un lavoro alienante e avvilente come quello presso la Buna, la fabbrica tedesca di gomma dove è stato costretto a lavorare nel 1944. Ridotto a un numero utile alla forza lavoro dell’industria tedesca, è riuscito a trovare la libertà nel laboratorio chimico del lager. All’interno dello stesso campo di concentramento ha avuto modo di osservare, sempre grazie alla sua instancabile sete di conoscenza, il valore del lavoro per gli uomini. Ne parla nell’intervista rilasciata a Roth: «[…]il bisogno del “lavoro ben fatto” è talmente radicato da spingere a far bene anche il lavoro imposto, schiavistico. Il muratore italiano che mi ha salvato la vita, portandomi cibo di nascosto per sei mesi, detestava i tedeschi, il loro cibo, la loro lingua, la loro guerra; ma quando lo mettevano a tirar su muri, li faceva dritti e solidi, non per obbedienza ma per dignità professionale».
«Il rapporto che lega un uomo alla sua professione è simile a quello che lo lega al suo paese; è altrettanto complesso, spesso ambivalente, e in generale viene compreso appieno solo quando si spezza». Non c’è occasione che Levi non colga per ribadire l’amore per il proprio mestiere e quanto questo possa essere salvifico. Nel suo caso, è stato il mestiere di chimico a spingerlo sulla via della scrittura. E lo spiega ripetutamente nel corso de La chiave a stella, in particolare in Acciughe, racconto che ripercorre nostalgicamente la sua ultima avventura di chimico. In un’intervista, inoltre, l’autore dichiara di possedere due anime: una da anfibio, da tecnico e chimico, l’altra da centauro, da scrittore. E denunciava tra le due una spaccatura paranoica («come quella, credo, di un Gadda, di un Sinisgalli, di un Solmi»).
Non si tratta, come si potrebbe credere, di due nature reciprocamente escludentesi. La cura per i particolari, l’abitudine ad approfondire ogni minima parte della realtà e la curiosità unita alla caparbietà sono ampiamente rintracciabili nella professione dello scrittore. Così come Faussone è un montatore di gru, ponti, impianti, Levi riesce a montare molecole e storie: scrivere equivale a trasformare. Lavorando di fantasia, con La chiave a stella, dunque, Primo Levi crea un personaggio probabilmente mai esistito, ma perfettamente autentico (come scrive Joseph Conrad, dalla Nota a Tifone, parlando del capitano MacWhirr): una sorta di guida ottimista nel preservare la libertà nel mondo moderno.