La calda estate delle carceri è il rapporto di metà anno sulle condizioni di detenzione dell’Associazione Antigone, che si propone di mostrare i dati raccolti durante le visite agli istituti di pena di questa prima parte del 2022. Il nome scelto ha una ragione precisa: quella che stiamo vivendo è una delle estati più afose che l’Italia abbia mai sperimentato e se c’è un luogo in cui il caldo diventa un vero e proprio supplizio, questo è il carcere.
Negli istituti di pena non c’è aria condizionata, e solo una recente circolare del Dap ha permesso l’acquisto di ventilatori ai detenuti. Spesso ci sono schermature alle finestre che non consentono il passaggio di aria. Nella maggior parte dei casi le celle sono sovraffollate e sprovviste di frigoriferi e, stando ai dati diffusi da Antigone, quasi il 60% non è dotato nemmeno di doccia. Questo significa non poter trovare refrigerio durante il giorno, nonostante già il regolamento di esecuzione della legge sull’ordinamento penitenziario del 2000 prevedesse l’obbligatorietà di una simile dotazione. In alcuni casi, addirittura, il carcere può non avere l’allaccio alla rete idrica, come è per Santa Maria Capua Vetere, oppure l’acqua viene razionata come ad Augusta, dunque ai reclusi ne viene fornita solo una quantità prestabilita al giorno.
Il caldo, dunque, ci consente di mettere in evidenza tutte le criticità del mondo penitenziario, con l’esplosione delle alte temperature che rende umanamente insopportabile la detenzione. A ciò si aggiunga che, a seguito della pandemia, in molte carceri le attività trattamentali e le possibilità lavorative, già irrisorie, si sono ridotte ulteriormente, lasciando nell’inedia chi è detenuto, e smentendo quella promessa costituzionale di risocializzazione che dovrebbe invece essere l’unico motivo che giustifica la compressione della libertà personale. La risocializzazione non è inoltre facilitata dalla difficoltà di coltivare i propri affetti e di avere un rapporto continuo con la propria famiglia, soprattutto in ambienti in cui sia rispettato il proprio diritto alla riservatezza.
Un primo passo in avanti sarebbe quello di svuotare gli istituti e renderli così più vivibili: basti pensare che, con più di 54mila unità, il tasso di sovraffollamento in Italia si aggira intorno al 107%, di gran lunga maggiore se si considera che questo dato ufficiale non tiene conto delle varie aree dismesse o comunque inutilizzabili degli istituti, e raggiunge picchi del 195% in alcune carceri come quella di Latina o Milano San Vittore. È una situazione ben più grave della media europea, soprattutto se si considera che più del 30% dei detenuti non ha una condanna definitiva, e dunque è un presunto innocente. Il dettato costituzionale viene quindi aggirato facendo ampissimo ricorso alla misura cautelare più restrittiva, che dovrebbe invece rappresentare l’extrema ratio, cui ricorrere solo laddove altre misure non risultino soddisfacenti per perseguire le esigenze cautelari.
A maggio scorso il Ministro della Giustizia ha presentato la relazione sull’utilizzo delle misure cautelari e le riparazioni per ingiusta detenzione: emerge che ben una misura cautelare su dieci è emessa illegittimamente, ossia in un procedimento in cui l’imputato risulterà prosciolto o assolto, o comunque in mancanza dei requisiti di legge. Ma può davvero un risarcimento restituire a un individuo il tempo trascorso in un ambiente come quello detentivo? O si dovrebbe forse ripensare il modo di intendere la pena, e in particolar modo l’utilizzo della detenzione quando si è ancora innocenti fino a prova contraria?
Emblema evidente del malessere avvertito dietro le sbarre sono i suicidi registrati in soli sette mesi, ben 47: si tratta di un numero che non era stato raggiunto neppure nei tempi di maggiore sovraffollamento del sistema carcerario italiano. In carcere ci si uccide sedici volte in più che all’esterno, in media una volta ogni cinque giorni, e il dato è ancora più allarmante se si guarda all’età di chi si uccide, giovanissimi tra i venti e i trent’anni.
Chi si suicida, o porta avanti atti di autolesionismo, anch’essi frequentissimi, ha un disagio psichico e, nella maggior parte dei casi, non avrebbe dovuto essere in carcere a scontare la propria pena, poiché il sistema detentivo, per come è congegnato, è incapace di soccorrere chi soffre di tale disagio. La tendenza è quella di risolverlo tra le mura, senza ricorrere a cure esterne, ricorrendo a una medicalizzazione sfrenata o, nel peggiore dei casi, a una chiusura in celle di isolamento.
Il supporto psicologico e psichiatrico è totalmente assente se si pensa che il 13% dei detenuti ha una diagnosi psichiatrica grave, e il 28% di essi assume stabilizzatori dell’umore o antidepressivi, quasi il 38% sedativi o ipnotici. I dati ufficiali ci parlano di sole 381 persone (meno dell’1% della popolazione detenuta) per cui è stato accertato un disagio psichico, ma si tratta in realtà di un dato che mistifica la realtà, riferendosi solo a coloro per i quali alla diagnosi ha fatto seguito una decisione giudiziaria o comunque dell’amministrazione penitenziaria, come nel caso dell’infermità psichiatrica sopravvenuta. Tutti gli altri restano quindi invisibili, di cui non ci si accorge – e comunque solo per qualche minuto che faccia scalpore sulle testate – fino a quando non attentano alla loro vita.
Ogni volta che parliamo delle condizioni di detenzione, le criticità che ci si parano davanti sono sempre le stesse da anni, ma nessun rappresentante politico prova a porre un freno con riforme strutturali che rispettino i diritti delle persone detenute. Ora che anche il piccolo processo di riforma avviato è stato interrotto, dalle prossime elezioni sembra ci si possa solo aspettare di peggio.