Pur non potendo dirsi proprio un libro natalizio (è uscito in Italia lo scorso settembre per Atlantide), il romanzo di Joe Stillman, L’uomo che guardava le stelle, ha suscitato in me, durante la lettura, quella sensazione confortevole che restituiscono le commedie di Natale in cui un deus ex machina con un potere sovrannaturale di qualche tipo (di solito un angelo) arriva improvvisamente nelle vite disastrate dei protagonisti e ripristina l’equilibrio a colpi di buoni consigli, generosità e un pizzico di magia.
È una formula che funziona dai tempi di Dickens e del suo Canto di Natale (il classico della stagione per eccellenza), in cui l’avaro Scrooge si redime da un’esistenza passata ad alimentare esclusivamente la propria relazione con il denaro grazie alla visita notturna di tre fantasmi, ciascuno recante la visione e il fatto premonitore di Natali passati, presenti e futuri scanditi solo dalla pendola della morte. La parabola cristiano-borghese di carità e misericordia natalizie riscosse un enorme successo nell’Inghilterra vittoriana, e nella Londra della Rivoluzione Industriale, e ha continuato a riecheggiare nei decenni e secoli a venire, a dimostrazione che i valori della nostra società occidentale si sono, forse, evoluti ma non sono certo cambiati.
Tratto da un altro racconto, la novella dello scrittore americano Philip Van Doren Stern, il film di Frank Capra La Vita è meravigliosa (1946) fa perno intorno a una situazione simile e inversa. Il generoso banchiere George Bailey, per seguire i propri ideali e aiutare i bisognosi della sua comunità a potersi permettere una casa, si indebita al punto da pensare di togliersi la vita, credendo che sarebbe stato addirittura meglio se non fosse mai nato. In suo soccorso non corrono, però, i fantasmi dickensiani, piuttosto un angelo in bombetta e papillon che mostra a Bailey un universo alternativo in cui la sua assenza ha alterato in negativo l’equilibrio della cittadina americana dove aveva sempre vissuto: il riccone locale, il signor Potter, agendo senza trovare opposizione da un uomo coraggioso e giusto come Bailey, ha trasformato il luogo un tempo ridente in una città della perdizione, costellata di bordelli e casinò. I figli di George non sono mai nati e quella che fu sua moglie conduce una vita grigia da bibliotecaria di provincia. Inorridito, il buon Bailey prega l’angelo di tornare indietro, di riportarlo al mondo, comprendendo infine il valore della sua vita.
In piena continuità con la parabola di carità dickensiana, il film di Capra esalta l’individualismo dietro la scelta volontaria di usare la propria vita per compiere buone azioni, per mettersi al servizio dell’altro più sfortunato (e pertanto, anche se solo velatamente accennato, subalterno). L’idea di una vita priva di scopo, dunque inutile, è più tremenda della morte. E di questa narrazione siamo figli, sempre alla ricerca del nostro perché, specialmente intorno alla fine dell’anno sul calendario, a Natale, quando la consapevolezza di ciò che siamo stati, ciò che siamo e ciò che saremo morde il nostro orgoglio con più forza.
La domanda sul senso della vita è al centro del romanzo di Stillman. Non perché qualcuno dei suoi personaggi sia tormentato dalla ricerca, ma perché, leggendo di Bill e della sua avventura sulla Terra, l’interrogativo balena nella mente del lettore a più riprese.
Bill è il deus ex machina, l’angelo de L’uomo che guardava le stelle. Non è nato e non viene da nessuna parte. Il suo è un nome preso in prestito, come pure il corpo che veste. La scelta di Bill, un nome comunissimo, e l’occasione di divenire corpo penetrando nel cadavere di un giovane disgraziato morto di overdose sono di per sé significative. L’entità che risponderà al nome di Bill sceglie, per la sua esperienza di umanità, di essere ultimo.
Del giovane abitante delle spoglie precedente non resta traccia nella sua memoria, eppure porta della sofferenza vissuta i segni sulla pelle. La venuta di Bill è, quindi, anzitutto un’opportunità di nuova felicità per il ragazzo scomparso nell’indifferenza semi-totale. Ed è singolare che Stillman adotti come espediente il tropo della possessione, così ampiamente abusato nel genere horror e fantascientifico. Il tema dell’estraneo che prende possesso di un corpo inerme e indifeso viene solitamente associato, nell’immaginario, all’orrore di perdere l’arbitrio, essere alla mercé di qualcun altro che compia attraverso di noi la sua volontà. È un atto sacrilego, blasfemo, la violazione estrema. Eppure, nel suo romanzo, Stillman lo presenta come qualcosa di positivo, una scintilla di bene.
Bill giunge, guidato da un’irresistibile forza, nella tipica cittadina americana con un pugno di abitanti che si conoscono tutti e che hanno come punto di ritrovo comune il diner di Mabel, madre single di tre figli da tre padri diversi. Lo straniero Bill entra nel diner e, con assoluta naturalezza, si piazza dietro la griglia per preparare la colazione per gli avventori del locale. Cucina ingredienti soliti (principalmente uova e bacon) in una maniera insolita: non prende le ordinazioni, ma legge nella mente dei clienti cosa hanno bisogno di mangiare. L’entità generica Bill, l’anima vagabonda che fa una tappa del suo viaggio di consapevolezza sulla Terra, negli Stati Uniti, nella tavola calda di una donna insoddisfatta dalla vita che le è toccata, nel corpo di un povero disgraziato, sceglie come mezzo d’espressione prediletto, come strumento per operare il cambiamento benevolo negli altri, il cibo.
Nutrire gli altri è forma di cura, farli sentire esauditi perché si è cucinato per loro esattamente quello che volevano e non la banale voce di un menù di tavola calda; far loro masticare, deglutire, ingerire, anche la premura, il calore, l’amore assieme ai nutrienti del pasto: possedere, dunque, per il breve periodo dell’assaggio e della digestione, anche i loro corpi per validarne l’esperienza, la dignità di desiderare il bene dei sensi. Per corroborare la mia tesi iniziale aggiungo: cosa c’è di più natalizio di un pranzo speciale preparato con premura e armonia e consumato insieme ai propri cari? Curando il palato, Bill cura l’anima dei clienti del locale e la solitudine di Mabel e dei suoi figli, soprattutto Belutha, la maggiore, che narra in prima persona gli eventi del romanzo.
Le due sono volti stereotipati della stessa medaglia: la madre tanto più promiscua e attaccata a una giovinezza che sfiorisce quanto più sente dentro di sé il vuoto delle sue sconfitte; la figlia che, per compensazione, azzera nella sua personalità ogni traccia di un femminile che ha imparato a disprezzare e a considerare infido. E se il vuoto esistenziale sembra colmato e appagato in maniera semplicistica e sbrigativa dal provvidenziale arrivo di un essere nei confronti del quale nessuno sembra farsi troppe domande, e se, quando presenti, le questioni sulla provenienza di Bill vengono risolte e liquidate quasi con una scrollata di spalle e la bonaria convinzione che non potrebbe far del male a una mosca, poco importa per la generale atmosfera del romanzo. Un’atmosfera di fiaba natalizia in cui i buoni sentimenti prevalgono su tutto il resto.