Il giallo in senso lato ha assunto le proporzioni di behemoth letterario già da tempo. All’interno del genere, confluiscono i più disparati filoni: dal thriller al noir, al pulp, al poliziesco e così via. Hanno in comune l’elemento stilistico della suspense, quel prodigio capace di tenere il lettore incollato alla pagina, dimentico fino all’epilogo di ogni altra necessità del corpo che non sia lo scorrere rapido dell’occhio sulle parole.
Scrivere gialli non deve essere facile perché deve essere facile leggerli. La necessità di mantenere un incedere incalzante, di bilanciare come un giocoliere le opportune descrizioni dell’ambientazione e le scene d’azione sollevando il lettore ideale dall’incombenza della noia, proteggendolo dalle incursioni del mondo esterno sulla bolla protetta (per quanto nera) del racconto è caratteristica di tutta la narrativa d’intrattenimento, cosa che le ha valso l’aggettivo – spesso utilizzato erroneamente con spregio – di popolare.
Oggi, il principale concorrente della narrativa è l’audiovisivo, la sterminata produzione di serie televisive scritte e concepite secondo gli stessi criteri del giallo o del romanzo d’appendice: tenere lo spettatore sospeso, in tensione davanti allo schermo in attesa del prossimo colpo di scena o della risoluzione del mistero. I due media si influenzano a vicenda, nella ripresa sempre più frequente, all’interno dei libri, di inquadrature e sequenze da cinema o di riferimenti espliciti a prodotti cult come True Detective o Il Trono di Spade e viceversa, per i colossi dell’intrattenimento digitale come Netflix, nell’adattamento (spesso pigro) di romanzi. Non è raro, in effetti, che alla lettura di un libro la mente corra già verso una sua probabile o plausibile versione per il grande e per il piccolo schermo. Ci ritroviamo, dunque, gli scaffali ricolmi di ibridi che hanno forma di romanzo, ma sono, in realtà, già film.
È questa la sensazione che mi ha invaso leggendo il primo romanzo edito in Italia di César Pérez Gellida, L’ultima a morire (Ponte alle Grazie). Fulcro del testo è un furto d’opere d’arte, il colpo messo a segno da una banda di ladri professionisti che definire eterogenea è dire poco. Strateghi affetti dalla sindrome di Marfan, sicari della mafia russa, ex minatori prestati alla criminalità, spie doppiogiochiste. Il tutto condito da nomignoli che sembrano usciti da un cartone animato per bambini, inseguimenti rocamboleschi e una generosa dose di pallottole. Alle loro calcagna si muove la detective Sara Robles.
Mentre la caratterizzazione dei “cattivi” di Gellida risulta non solo convincente, ma vivace, la protagonista di L’ultima a morire incarna alla perfezione lo stereotipo fatto e finito della donna forte al comando, scritta da un uomo. Sara è narrata attraverso il male gaze, quell’invadente sguardo maschile di cui oggi si parla moltissimo nell’ambito cinematografico. Se, però, sulla donna oggetto lo sguardo maschile si sofferma lascivo e tende a elencare caratteristiche anatomiche esagerate o quantomeno fantasiose, la donna protagonista è sottoposta a un intervento di maschilizzazione. In parole povere, Gellida vuole una protagonista cazzuta, con le palle. Una donna priva delle caratteristiche prontamente associate al femminile: la delicatezza, la timidezza, il pudore.
Come la Lara Croft dei videogiochi, Sara ha un corpo di donna ma agisce, si muove, parla obbedendo al “tipo” virile ipertrofico che viene spacciato per vero maschio. Non può essere un caso, in questo senso, che Gellida modelli la personalità della sua protagonista attraverso la dipendenza dal sesso. Sara usa gli uomini come gli uomini della fiction fanno con le donne – basti pensare a James Bond, la cui curva di fascino è direttamente proporzionale alla quantità di partner sessuali, ammaliate al punto da perdere ogni caratterizzazione e diventare semplicemente bond girl. Alla dipendenza, del resto, viene dedicato lo spazio necessario a farla rotolare fra le lenzuola con degli sconosciuti o farla fremere di desiderio nelle situazioni più inopportune. Unico altro tratto distintivo della protagonista è una violenta irascibilità, emozione per lo più afferente all’archetipo maschile.
Con questo non si vuol certo dire che non esistano donne irascibili o sessuomani, ma il fatto che dal personaggio della “donna forte” venga eliminato il femminile fa riflettere. Significa che una donna è degna di assumere il comando fintantoché della donna conserva solo le fattezze. Sara è un uomo che fantastica sulla possibilità di essere femmina.
Al netto di un personaggio principale un po’ debole, però, L’ultima a morire presenta elementi tra loro diversissimi e dà vita a un poliziesco puro che è, allo stesso tempo, un omaggio alla terra d’origine dell’autore (Valladolid) e all’arte. L’amore per quest’ultima parla per bocca degli agenti della divisione speciale per i furti di opere, nelle descrizioni commosse di qualche anziano passante, nella definizione del colpo dello Spaventapasseri. L’azione è punteggiata di brevi, frequenti, inserti descrittivi delle opere, delle architetture, dell’arte religiosa di Valladolid. Menzione d’onore va, qui, al lavoro di traduzione di Thais Siciliano, che mantiene la prosa agile e avvincente anche nei passaggi in cui il testo narrativo lascia spazio alla trattazione artistica.
L’intento dello scrittore appare pedagogico, quasi Gellida voglia educare il lettore di L’ultima a morire alle bellezze del suo territorio. Questo sospetto è, poi, verificato nella pagina dei ringraziamenti, dove è sorpresa gradita il coinvolgimento dell’arte realmente presente a Valladolid e delle figure in carne e ossa che vi gravitano intorno nella realizzazione del romanzo.
La vicinanza al patrimonio culturale e le particolarità dei villain rendono il libro di Gellida almeno idealmente vicino alle fortunatissime e celebri fatiche dell’americano Dan Brown. Le dinamiche fra i personaggi (tra cui l’immancabile triangolo amoroso), la conduzione dell’indagine poliziesca, insieme alle sequenze d’azione scandite da un punto di vista polifonico e osservate da angolazioni diverse, come da una cinepresa, lo avvicinano di più al panorama della fiction televisiva. Chissà se quello che viene definito come il maestro del giallo spagnolo non approdi prima o poi alla TV o al cinema. Nel frattempo, il gellidismo, termine coniato appositamente dai suoi fan iberici, si fa largo nelle librerie italiane.