L’ultima volta che sono stato a Berlino, nel 2017, ho visitato la città lasciando che a guidarmi tra le sue strade, le piazze e i musei fosse unicamente la Storia. Il mio albergo sorgeva nei pressi della stazione di Bornholmer Strasse, ultima fermata della metropolitana in quella che era la zona sotto il controllo della Repubblica Democratica Tedesca, prima di attraversare il confine, ora segnato soltanto da un binario d’acciaio scavato nel marciapiedi. Il muro, trent’anni prima, passava lì di fianco, a poche decine di metri.
La torre della televisione di Alexanderplatz si prendeva lo sfondo altrimenti dipinto solo da un cielo a perdita d’occhio. Così come mi era capitato, pochi anni prima, a Parigi con la Torre Eiffel, l’antenna si scorgeva da qualsiasi angolo della città, la sua era una presenza in qualche modo sempre rassicurante. Quarantaquattro metri d’altezza differenziano le due strutture, con la Fernsehturm che supera la dama di ferro nella sua conquista al cielo d’Europa.
Nei libri, ciascuno cerca sempre un po’ di se stesso e io, personalmente, successivamente a quel viaggio sono andato in cerca delle atmosfere della Berlino Est che la Storia ha tentato in tutti i modi di cancellare ogni volta che ne ho avuto occasione. Ho intervistato persone del posto, ho acquistato cartine geografiche, guide dell’epoca, ho tenuto persino una rubrica per un giornale della città, Il Mitte. Così, quando L’ospite triste di Matthias Nawrat (L’orma editore) è arrivato sulla mia scrivania, ho subito sentito quella particolare connessione.
Sarà che la stazione ritratta in copertina è proprio Bornholmer Strasse, che la collana in cui è collocato il romanzo si intitola Kreuzville, una sintesi tra il quartiere di Kreuzberg di Berlino e Belville a Parigi (grafica meravigliosa!), ma L’ospite triste, con il suo sottotitolo romanzo berlinese, mi ha immediatamente conquistato.
Protagonista del testo è un uomo che presta la propria esistenza al racconto di vite sbocciate altrove – spesso in Polonia, o comunque nell’area della ex URSS – ma impantanatesi tra le strade della capitale tedesca. Come quella di Dorota, architetta triste e solitaria, che non lascia mai il quartiere in cui vive e che racchiude le contraddizioni del Novecento nella sua confessione al protagonista-narratore, accompagnandola sempre a una fetta di torta fatta in casa.
In queste prime cento pagine (i racconti sono principalmente tre), il rapporto tra Est e Ovest promesso dal libro prende forma tra case costruite a ridosso dei binari da poter guardare dentro, la mobilia spesso modesta, le menzogne del socialismo e le sue incoerenze, con città come Mosca, Praga o Budapest dove c’erano castelli dorati, centri commerciali di vetro, viali e corsi maestosi. Le spinte della libertà incoraggiata dalle luci dell’Ovest non bastano però a garantire la salvezza dell’architetta, né accolgono la ricerca disperata di Dariuz – un chirurgo passato dalle sale operatorie di Lublino a una pompa di benzina – delle tracce del proprio figlio scomparso prematuramente.
Matthias Nawrat, con grande ambizione, tenta di catturare la malinconia propria di quei vicoli senza più geografia – feriti dal proprio passato per essere ancora legati all’Est, sufficientemente illusi per sentirsi accolti dall’Ovest –, di collegare le memorie dei suoi personaggi alla storia recente della capitale del nuovo mondo, non sempre riuscendovi alla perfezione, in verità smarrendosi proprio dopo il primo, bellissimo racconto della vita di Dorota.
Il passaggio tra le esistenze che si alternano sullo sfondo di quella del protagonista-narratore non sempre suona chiaro o coerente, anche quando l’autore adopera l’attentato ai mercatini di Natale del 2016 per collocare la propria storia a Berlino. La città simbolo di quanto il romanzo promette di mettere in scena, ossia il rapporto tra l’Est e l’Ovest, le contraddizioni del mondo, scelta – a giusta ragione – proprio per queste sue caratteristiche, non viene resa protagonista al pari dei suoi tristi emigrati. Quando il patto dichiarato in copertina – romanzo berlinese – viene meno, domandarsi il perché diviene automatico. Le vicende successive quei fatti drammatici si raccontano con sincerità, urgenza, voci struggenti quanto basta a rapire il lettore, ma legate a Berlino da circostanze che talvolta suonano un po’ forzate.
In questo chiedersi se il tempo che viviamo non sia altrettanto vulnerabile degli altri che hanno preceduto, avvolto dalle inquietudini del presente, l’autore si spinge alla ricerca di un’identità che rimane (volutamente) infruttuosa. Proprio come l’anima di Berlino, città che, tra uno ieri mai dimenticato e un domani di ancora difficile definizione, accoglie tanti ospiti tristi, le loro vite, le loro storie.