C’è un dato, ancora una volta confermato dalle recenti elezioni amministrative, che ha trovato concordi tutte le forze politiche, anche se non nelle analisi sulle cause: l’astensionismo. Basta guardare a quel 43.94% riferito ai ballottaggi o a città come Milano e Bologna, dove ha votato meno di un elettore su due – il dato peggiore dal dopoguerra –, per convincersi della crescente sfiducia nei confronti della classe dirigente sempre più distante dai cittadini e dai problemi reali, con la politica che è percepita ormai come qualcosa da cui prendere le distanze, un virus contagioso, una pandemia che sta minando le fondamenta della democrazia.
Tutti i partiti, prima delle competizioni elettorali, fanno appello a quel popolo invisibile ma tanto rumoroso nella fase successiva dei conteggi dei votanti, assenze che pesano e di cui puntualmente le forze politiche riescono a prendere atto, incapaci però di una seria e attenta analisi o, più realisticamente, consapevoli delle proprie responsabilità e delle ragioni che determinano percentuali che non fanno sperare in alcuna inversione di tendenza. Ripreso il cammino dopo la sbornia delle urne, infatti, quel popolo viene nuovamente abbandonato, come se la cosa non riguardasse la politica, i partiti, i movimenti senza alcuna identità, capaci soltanto di inseguire un potere, una collocazione nei territori e nelle sedi istituzionali.
Ciò che resta dei partiti tradizionali è impegnato, infatti, a trovare alleanze di comodo con variabili locali: è accaduto di recente nella terza città d’Italia, dove la vittoria del candidato di centrosinistra deve il suo successo a forze ideologicamente estranee a sinistra (seppur semplicemente nominale), formate da fuoriusciti di gruppi di centrodestra e transfughi rivoluzionari pentiti senza né capo né coda. Forze favorite proprio da quella parte di elettorato che ha preferito ancora una volta restare a guardare, avallando accordi che nulla hanno a che fare con la politica a servizio della comunità per la crescita e lo sviluppo di un territorio uscito a fatica dalle montagne di rifiuti di ogni genere recuperando dignità.
«Se uno viene eletto sindaco da una minoranza di una minoranza è un problema non per un partito, ma per la democrazia». Vero, ha ragione Matteo Salvini che, però, come suo solito finge di non conoscere le cause, ignorando le proprie responsabilità in quanto a modo di intendere quella democrazia troppo genericamente accennata, al suo essere divulgatore di odio sociale, portatore di quel virus dell’esclusione di intere categorie considerate rifiuti umani, certo di trovare ampio consenso che ancora gli consente di avere un ruolo predominante, anche se significativamente ridimensionato nelle urne. È un problema per la democrazia egli stesso e, in buona compagnia, chi ancora è considerata a capo di una forza che potrebbe prendere le redini del Paese, sforzandosi di apparire come vittima di una persecuzione per la vicinanza a raggruppamenti questi sì pericolosi.
Nessuno è estraneo al dilagare del fenomeno che ha stravolto assetti di partito ed equilibri di governo a causa di propri esponenti in delirio di onnipotenza. È accaduto, ad esempio, a quel Matteo Renzi enfant prodige della politica politicante, senza scrupoli e mina vagante della democrazia che ancora qualche sorpresa potrà riservare. E come non citare tra gli artefici del disastro italiano quell’ex Cavaliere che – sembra uno scherzo, ma purtroppo non lo è – mira al Quirinale, forse ancora in vena di screditare ulteriormente il Paese.
Occorre, quindi, recuperare – anche se impresa difficile e quasi impossibile – parte di quella metà di elettorato deciso a non condividere scelte e proposte palesemente frutto di accordi di convenienza, estranei a ogni logica di sana e corretta politica o, peggio, di esponenti di quelle forze e coalizioni la cui credibilità è praticamente nulla. La domanda sorge spontanea: esiste una strada o la rassegnazione è l’unica via?
Il recupero di un’idea di società, di una specifica e chiara identità di ciascuna forza politica, una classe dirigente completamente rinnovata e la formazione della stessa, dove riciclati, improvvisati, impreparati e di dubbia provenienza non trovino porte spalancate nelle istituzioni locali e nazionali, è un processo lungo e complicato, possibile soltanto con una volontà forte e decisa, un’inversione di tendenza senza la quale – allora sì – la via della rassegnazione sarà l’unica possibile perché consegnerà il Paese a un destino pericoloso che potrà soltanto continuare a infoltire quel popolo silenzioso che rischierebbe di far proprio il gioco di quanti trasversalmente riterrebbero quell’astensionismo di comodo, in particolare nelle realtà locali, per meglio gestire i consensi.
La degenerazione della politica ci induce a essere realisticamente pessimisti ma, come da sempre sosteniamo, abbiamo il dovere di contribuire alla speranza, all’ottimismo, a dare un segnale alle nuove generazioni e a esse guardare fiduciosi per abbattere un sistema che non regge ormai da tempo, favorendo politiche di sviluppo e benessere condivisibili, dove la crescita non abbia soltanto indicatori ufficiali a favore di una minoranza, ma un’equa distribuzione delle risorse e delle opportunità di lavoro, evitando una volta per tutte i viaggi della speranza dei nostri giovani, anche soltanto per un lavoro modesto senza prospettive di una vita dignitosa.