In questi primi mesi di governo non abbiamo faticato a capire quali fossero le priorità della nuova compagine politica, che si è spesso data da fare con misure apparentemente poco incisive ma che in realtà hanno un alto valore simbolico. Basti pensare al cosiddetto decreto anti-rave o all’immediata riforma riguardante il reddito di cittadinanza. Si può dire lo stesso della proposta di legge avanzata una settimana fa da alcuni esponenti di Fratelli d’Italia e attualmente al vaglio della Commissione Giustizia: l’intento è quello di abrogare gli articoli 613 bis e 613 ter del Codice Penale riguardanti il reato di tortura e mantenere la fattispecie solo come aggravante.
Si tratta di un passo indietro pericolosissimo se consideriamo quanto sia stato lungo e faticoso l’iter parlamentare che ha portato alla sua approvazione, molti anni dopo la ratifica da parte dell’Italia della Convenzione Onu contro la tortura e con un testo di legge molto limitato rispetto a quello originariamente previsto. Non è di certo la prima volta che FdI si esprime a riguardo e durante la campagna elettorale di quest’estate la coalizione di (centro)destra non ha mancato di promettere una rimodulazione della disciplina.
Il passo è stato deciso, se si pensa che si è proposta un’abolizione totale della fattispecie, legittimando di fatto gli abusi di potere e la violenza proprio nei luoghi in cui le persone sono sotto la custodia dello Stato e dovrebbero quindi sentirsi al sicuro. Di certo questo non è possibile se si ascoltano le dichiarazioni dei firmatari della proposta di legge: «Se non si abrogassero gli articoli 613-bis e 613-ter, potrebbero finire nelle maglie del reato in esame comportamenti chiaramente estranei al suo ambito d’applicazione classico, tra cui un rigoroso uso della forza da parte della polizia durante un arresto o in operazioni di ordine pubblico particolarmente delicate o la collocazione di un detenuto in una cella sovraffollata». Un’affermazione incomprensibile, da un lato perché l’indeterminatezza della norma non è tale da ricomprendere ipotesi estranee al suo campo d’applicazione; dall’altro perché sono rarissimi i casi in cui quello che definiscono rigoroso uso della forza è legittimo.
Basti pensare al carcere, il (non) luogo dove in più di tutti sono emerse fattispecie rientranti nel reato di tortura – parliamo di circa duecento indagati – senza considerare le moltissime altre che, pur rappresentando episodi ugualmente gravi, si sono registrate prima e non hanno potuto beneficiare del regime introdotto nel 2017.
La legge sull’ordinamento penitenziario prevede, all’articolo 41, che non è consentito l’impiego della forza fisica nei confronti dei detenuti e degli internati se non sia indispensabile per prevenire o impedire atti di violenza, per impedire tentativi di evasione o per vincere la resistenza, anche passiva, all’esecuzione degli ordini impartiti, dettando inoltre specifiche regole che rendano manifesto l’uso di quella stessa forza, definita così specificamente. Ciononostante, pare che una norma che punisce chi con violenze o minacce gravi, ovvero agendo con crudeltà, cagiona acute sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico a una persona privata della libertà personale o affidata alla sua custodia, potestà, vigilanza, controllo, cura o assistenza, ovvero che si trovi in condizioni di minorata difesa, finisca con il disincentivare e demotivare – stando alle parole dei nostri rappresentanti politici – l’azione delle forze dell’ordine.
Non potevamo di certo aspettarci molto di più da chi ha sempre dato più valore alle parole degli uomini in divisa che a quelle dei detenuti, considerando questi ultimi dei cittadini di serie b e alimentando vergognose passerelle politiche fuori dagli istituti di pena e dai luoghi di custodia. Abolire il reato di tortura significa di fatto negare che in Italia avvengono violenze e abusi da parte di chi detiene il potere: abbiamo già parlato non solo della difficoltà di accettare e parlare di questi episodi, ma anche dell’incapacità di attribuire loro il vergognoso significato che hanno, quando ad esempio si sono negate le violenze di Santa Maria Capua Vetere, proponendo addirittura un premio per quegli agenti che si stanno dimostrando, a processo, dei carnefici.
Eppure, il Comitato per la prevenzione della tortura – organo del Consiglio d’Europa istituto a seguito della Convenzione europea per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti – ha presentato un rapporto sulle ultime visite effettuate negli istituti di pena italiani che ci racconta di una situazione tutt’altro che serena, denunciando innanzitutto violenze e intimidazioni, senza considerare le criticità legate al sovraffollamento e a istituti giuridici oramai anacronistici come l’isolamento diurno.
L’ordinamento penitenziario italiano è indietro e questa proposta di legge rischia di farlo sprofondare in un baratro senza via d’uscita. Non sono mancate reazioni della società civile più sensibile al tema, oltre che dell’Associazione Antigone che ha avviato anche una raccolta firme, e della senatrice Ilaria Cucchi, che ben sa cosa significa la violenza istituzionale e fino a dove questa può arrivare. Si tratta di un passo indietro che non possiamo permettere perché rappresenta una regressione in termini di civiltà e diritti, dalla quale potrebbe essere impossibile avanzare nuovamente.