Trovai un termine per quel sentimento che mi teneva prigioniero in seguito alla morte di mio fratello, e lo chiamai solitudine. Cominciai presto a scovarla in tutto, non solo nella vita di mio fratello ma in ogni vita, anche nella mia, nell’esistenza che condividevo e osservavo. Riconobbi nella solitudine il premio e la punizione, vedevo come questa solitudine aumentava tra i miei amici. Vi riconobbi la malattia del mio tempo, la causa dell’infelicità che doveva provare chiunque avesse un cuore generoso. Alla fine ognuno era solo, lo avvertivo, e in tutti i giorni c’era una fine.
È un’indagine sincera e commovente dell’animo umano l’ultimo libro di Lukas Bårfuss, Koala, pubblicato per il mercato italiano con l’attenta traduzione di Margherita Carbonaro per L’Orma Editore. Romanzo autobiografico, dai diversi volti, Koala racconta il suicidio del fratello dello scrittore svizzero e, soprattutto, del vuoto che resta ad affollare la vita del narratore con pensieri profondi, spiazzanti, talvolta violenti sulla natura dell’esistenza.
L’indagine di Lukas Bårfuss, all’indomani della tragedia, comincia da sé, dal rapporto con il fratello maggiore sempre vissuto come dovuto. L’autore scandaglia le relazioni familiari, ogni singolo gesto che, inconsapevolmente, potrebbe aver spinto l’uomo nella vasca da bagno nella quale ha compiuto l’ultimo gesto. Contatta gli amici e studia i casi analoghi che i libri e la storia raccontano, trovando nella solitudine e nella ribellione alla schiavitù del lavoro moderno un comune denominatore.
Ogni parola è potente e disegna la negazione dell’ambizione, il diniego all’impegno e alla fatica, il rifiuto al lavoro che si figura come l’unica motivazione che spinge tutti gli altri a continuare a vivere. Così prende forma il parallelismo tra l’uomo e il koala, soprannome con il quale il fratello del narratore viene segnato sin da ragazzino, quando frequentava gli scout, ben prima dunque che l’età adulta avvalorasse quella somiglianza che prende forma nell’indolenza, la remissività e l’indole rinunciataria a qualsiasi sforzo dell’uomo.
E la pigrizia, così appresi, non era accettabile. Chi si ostinava a indulgervi doveva essere eliminato. All’animale vennero rubati la pace e pure il guardaroba, era stato in gran parte annientato, i sopravvissuti trasformati in moneta sonante. Negli zoo e nei parchi, oppure snaturate, tramutate in peluche, protagoniste di innocui libri per bambini, solo così le creature della pigrizia erano sopportabili. Non si poteva lasciare che il principio della loro esistenza, la mancanza di ambizione, si sviluppasse liberamente, il pericolo era troppo grande, troppo grande la provocazione che rappresentava.
Lukas Bårfuss, nel tentativo di darsi una spiegazione, si incammina lungo la linea del tempo fino alla prima comparsa dell’animale che combacia con la tragica colonizzazione dell’Australia. Qui il racconto si fa storia e mito, un romanzo d’avventura, tra briganti e marinai, il cui tempo è scandito dalla vita del marsupiale e la sua sopravvivenza a un’estinzione che sembrava ormai certa.
Il romanzo sviscera, così, il rapporto e l’eterno conflitto tra uomo e natura, la lotta che porta il koala – simbolo del testo, rappresentato anche in copertina nella sua natura selvaggia – ad assumere le sembianza del tenero mammifero che oggi riconosciamo. La vita e l’istinto dell’animale si sovrappongono, fino al triste epilogo, all’essenza del fratello suicida di Bårfuss e – più in generale – di qualunque essere umano abbia mai rinunciato alla sopravvivenza, disegnando così un imprevedibile, crudo manifesto di resistenza alle leggi che regolano la società moderna.
E così vivevamo, così vivevo. Fuori dalla creazione. Non ci veniva regalato niente quel che vogliamo mangiare dovevamo rubarlo al giorno. […] Ogni ostacolo poteva essere superato solo attraverso uno sforzo ancora maggiore.
E all’improvviso capii per quale motivo si evitasse di parlare del suicidio. Non era contagioso come una malattia, era persuasivo come un argomento stringente. Affermare di non capire i suicidi era una menzogna. Al contrario li capivamo fin troppo bene. La domanda infatti non era: perché si è ammazzato? La domanda: era perché vivete ancora? Perché non abbreviate l’affanno? Perché non prendete la corda, il veleno, la pistola, perché non aprite la finestra, adesso, subito?