Lo scorso 27 gennaio Kabul è stata squarciata per l’ennesima volta da un attentato. È accaduto a Sedarat, nei pressi della vecchia sede del Ministero dell’Interno, dove attualmente è presente l’Alto Consiglio di Pace (Hpc), incaricato della trattativa con i talebani, senza però ottenere chiaramente grandi successi.
Niente di nuovo a Kabul, dunque. Ancora un’esplosione, urla strazianti, spargimento di sangue e vite umane che hanno smesso di essere. L’attacco è stato rivendicato su Twitter da Zabihullah Mujahid, uno dei due portavoce del movimento talebano dell’Emirato Islamico dell’Afghanistan.
Gli attentatori si sono serviti di un’autoambulanza per superare il primo check-point, ma quando al secondo controllo sono stati scoperti, si sono fatti esplodere. Le conseguenze sono state delle più infelici: il Ministero della Sanità, infatti, ha contato quaranta morti e centoquaranta feriti, tuttavia non ci sorprenderemmo se in realtà il bilancio fosse anche più alto. Più di settanta persone sono ricoverate presso l’ospedale di Emergency, che ha descritto l’accaduto come un vero e proprio massacro. La stessa struttura che, tra l’altro, nell’aprile dello scorso anno è stata coinvolta in un attentato che ha causato oltre un centinaio di vittime. Tutto questo, a soltanto una settimana da un attacco all’Hotel Intercontinental, con un bilancio di quarantatré morti, e all’ONG Save the Children, presso Jalalabad, che ha contato ventiquattro feriti e quattro volontari deceduti.
Quella di ambulanze e furgoni carichi di esplosivi è, del resto, una storia che conosciamo bene e che ha fatto rabbrividire l’intera Europa, ma non solo, quando lo scenario è stato quello inglese o quello francese. Tuttavia, se gli atti terroristici in quei Paesi sono sporadici, sono invece continui quelli che colpiscono Kabul, capitale afgana dalle mille luci e una delle città più grandi al mondo, storicamente costretta, ogni volta, a un tentativo costante di rinascita. Diventa sempre più difficile, però, far sparire le macchie di sangue che si rinnovano continuamente insieme alla paura e al dolore di chi, all’ordine del giorno, perde un familiare o un amico.
Se si volesse stilare un elenco di tutti gli attacchi che hanno coinvolto l’Afghanistan e la sua capitale, non basterebbe un articolo intero. Una rapida ricerca su Google sarebbe già sufficiente per prendere coscienza delle reali dimensioni di un dramma che coinvolge la popolazione da anni, senza scemare ma, anzi, intensificandosi sempre più, con una parte del mondo che si impegna a dar man forte alla violenza mentre l’altra si limita a guardare o, preferibilmente, a volgere lo sguardo altrove.
Ciononostante, sarà la troppa abitudine a vedere gli afgani in immagini di corpi martoriati o l’eccessiva lontananza del Paese mediorientale, sarà che la sua bandiera non è di moda come quella francese o che gli abitanti non hanno lo stesso charme dei parigini e dei londinesi, ma queste stragi senza fine, nonostante – nel migliore dei casi – se ne parli occasionalmente sui giornali e in TV, non toccano più nessuno da questo lato del pianeta.
Non una frase dedicata a loro, né un impeto di rabbia di fronte a un popolo cui la morte non dà tregua per più di una settimana. Ci si scandalizza soltanto quando se ne vede qualcuno di troppo nelle strade e nelle piazze della propria città poiché è ormai pensiero comune che chiunque, fra loro, possa essere un assaltatore pronto a lasciarsi esplodere in nome di Allah. Eppure i numeri dovrebbero parlare da sé e la percentuale di vittime in casa loro, che rispetto ai carnefici costituisce la stragrande maggioranza, potrebbe almeno muovere un sentimento di pietà.
Nulla, invece, è dovuto alle vittime innocenti, continuamente ripudiate e sfrattate da uno Stato all’altro come una palla avvelenata che nessuno vuole tenere fra le mani per più di qualche istante. E, laddove ottengano un’ospitalità ceduta con riluttanza, non c’è nessun diritto cui possano appigliarsi, né viene loro riservato un gesto di sincera solidarietà. Si opta piuttosto per il disprezzo e il terrore, per un’incuranza che non si incrina di fronte a immagini di distruzione, di occhi vacui e spenti dalla morte e dinanzi a bambini che cresceranno con una lacerazione interiore impossibile da sanare, se cresceranno.
Ma ti prego di riflettere su questo: un uomo privo di coscienza e di bontà non soffre. Così scriveva Khaled Hosseini ne Il cacciatore di Aquiloni, ambientato in una Kabul poco prima della distruzione, dove di notte i pioppi oscillavano dolcemente nella brezza e i giardini risuonavano del canto dei grilli.