Una ragazzina spaventata da un orco su una strada di mattoni gialli: l’adolescente è Judy Garland, baby-star in ascesa, l’orco invece è Louis B. Mayer, il tirannico produttore – allora si chiamavano tycoon – della Metro Goldwyn Mayer che la blandisce e la manipola psicologicamente tra minacce e promesse di celebrità. La scenografia è ovviamente quella de Il Mago di Oz, la favola di Krank Baum portata da Victor Fleming sul grande schermo nel 1939 che consacrò l’interprete di Dorothy Gale al successo mondiale. Questo l’incipit di Judy, il film di Rupert Goold, basato sulla pièce teatrale di Peter Quilter End of the rainbow, adattata per il cinema da Tom Edge, che ci mostra le ombre celate tra gli scenari da favola della Hollywood degli anni d’oro.
La vicenda di Judy Garland è esemplare di un’esistenza prefabbricata dagli Studios che all’epoca confezionavano l’immagine dei divi e ne condizionavano l’intera vita privata, dall’alimentazione finanche alla scelta dei partner, per non parlare delle numerose ore di lavoro quotidiano senza pause. Il tutto giustificato da fama e contratti milionari. L’esistenza della Garland, in particolare, ne uscì stritolata, peggiorata inoltre dall’utilizzo indotto di anfetamine per restare sveglia a lungo e sonniferi per dormire. Ritroviamo, infatti, Judy sulla soglia dei 47 anni, in difficoltà economiche – nessuno le offriva più lavoro a causa della sua inaffidabilità provocata dall’abuso di alcool e psicofarmaci –, senza una casa e con il problema della custodia dei figli che la spingerà dunque a spostarsi in Inghilterra per accettare l’ingaggio per una serie di spettacoli presso il Talk of the town, nightclub prestigioso che nella Londra del 1969 andava per la maggiore.
È su questa fase che si concentra il film di Goold, con alcune brevi incursioni nel periodo in cui la giovane Judy era all’apice del successo in coppia con Mickey Rooney, altra baby-star dell’epoca. Manca dunque tutta la parabola artistica della Garland che fu una diva dalle doti canore fuori dal comune e dalla presenza scenica magnetica, ma la cui bellezza non era a livello di una Ava Gardner o di una Lana Turner, altro motivo, il non essere sufficientemente bella, per Mayer per pungolarla e manipolarla.
Raccontando sprazzi dell’inizio e, concentrandosi soprattutto sulla fase finale della sua carriera – sarebbe morta di lì a poco, all’età di 47 anni – Judy mostra dunque il lato oscuro di Hollywood e lo fa soprattutto tramite il corpo e il volto di un’attrice che ha più di un punto in comune con la vicenda esistenziale della Garland, Renée Zellweger, intrappolata anche lei in un ruolo, quello della paffuta Bridget Jones, sebbene abbia dimostrato poi doti non comuni con l’interpretazione del musical Chicago (2002) e con il ruolo di Ruby in Ritorno a Cold Mountain che nel 2004 le è valso un Oscar come miglior attrice non protagonista. In seguito, i suoi ingaggi si sono diradati e dal 2010 è scomparsa letteralmente dagli schermi, probabilmente a causa di problemi depressivi. Poi il ritorno nel 2016 con Bridget Jones’ baby e adesso la consacrazione con Judy per il quale ha già vinto il Golden Globe per la migliore attrice in un film drammatico nonché il Critics Choice Award e il SAG Award. Manco a dirlo, è tra le favorite nella corsa alla statuetta 2020.
La fragilità della Garland viene dunque interiorizzata dalla Zellweger in un ruolo che è più di una semplice interpretazione, una vera e propria compenetrazione di vita e destino. La modalità fisica con cui l’attrice si è calata nel ruolo della diva è impressionante se andiamo a guardare su YouTube i materiali della Garland relativi a quel periodo. Nel suo strabuzzare gli occhi, nelle sue movenze a volte sconnesse dall’alcool, altre invece rese sicure da una consuetudine allo spettacolo e da un talento naturale incredibile, nella voce increspata da una recente tracheotomia che aveva subito a causa di un tentativo di suicidio. C’è tutto questo nell’incredibile interpretazione della Zellweger e anche di più, perché avviene una sincera osmosi tra le due entità attoriali, riconoscendosi l’una nelle fragilità dell’altra e incarnandole in un’operazione che diventa quasi evocazione spiritico-stregonesca della stella hollywoodiana. Considerando che l’Academy resta sempre affascinata dalle riproposizioni mimetiche di grandi personaggi del passato, è facile che la Zellweger conquisti il suo secondo Oscar, stavolta come protagonista.
In tutto ciò, la regia di Goold resta un po’ adombrata dalla fenomenale performance dell’attrice che fagocita il film, sebbene non manchino elementi interessanti. Tra questi, le brevi scene ambientate nella Hollywood che fu, con scenari di cartapesta la cui artificiosità richiama tematicamente la tragedia esistenziale di vite illusorie dalla facciata scintillante che nascondevano oscuri drammi.
La rappresentazione della Swinging London del 1969 in cui si muove l’allucinata Judy è piuttosto convenzionale ma l’incontro notturno con due fan gay, di cui la diva fu vera e propria icona, vivacizza la parte centrale del film e commuove per l’affinità che si viene a creare tra l’attrice e i due uomini, le cui scelte sessuali erano considerate illegali in Inghilterra fino a qualche anno prima. Il riconoscersi di Judy nella diversità dei fan che la adorano e in un destino che la portò, nella fase finale della sua vita a essere un paria in quello stesso ambiente che l’aveva osannata, coinvolge emotivamente e avvicina ancor più gli spettatori a lei.
Alcuni movimenti della macchina da presa durante la prima esibizione –Trolley song tratta dal film Incontriamoci a Saint. Louis (1944) – di Renée/Judy al Talk of the town richiamano inequivocabilmente i dolly/zoom scorsesiani che ci avvicinavano e allontanavano dal volto di Liza Minelli – figlia della Garland – nel corso dell’esibizione canora di New York New York nell’omonima pellicola (del 1977) del regista di Taxi driver. L’esibizione iconica della Minelli di Scorsese rivive dunque, con gli stessi stilemi visivi, nell’esibizione della Zellweger che ne interpreta la madre, in un perfetto cortocircuito tra esistenze reali e percorsi cinematografici, tra vita e illusione.
Inoltre, i primissimi piani del volto allucinato della Zellweger durante le sue alcooliche esibizioni richiamano in parte i favolosi primi piani che George Cukor costruiva sul viso della Garland nel corso delle sue esibizioni in È nata una stella (1954), il film che ne consacrò la maturità artistica ma anche il tramonto. Il rapporto che si crea tra la diva e Rosalyn Wilder – interpretata da Jessie Buckley –, l’assistente che le fu assegnata dalla direzione del locale londinese in cui si esibì, è l’altro perno emotivo su cui si basa il film. La vera Rosalyn, ancora vivente, ha svolto infatti ruolo da consulente durante le riprese regalando alcuni aneddoti divertenti o amari che sono rientrati nella trama e che rispecchiano il carattere imprevedibile, bizzoso ma anche eclettico e talentuoso di Judy Garland.
Pur costellata da episodi imbarazzanti, la serie di spettacoli al Talk of the town dimostrò che anche in condizioni psicofisiche disastrose, ella sapeva conquistare il pubblico che, in una scena finale chiaramente inventata, la conforterà e aiuterà a cantare l’intramontabile Over the rainbow. Il cinema cambia ancora una volta le sorti del destino e risarcisce vite bruciate.
Se dunque Judy riesce a smarcarsi dai biopic più classici illuminando soltanto la fase crepuscolare della vita e della carriera della diva de Il Mago di Oz, pur trattando a sprazzi alcuni episodi della fase hollywoodiana che chiariscono le ragioni del suo disastro esistenziale, dall’altro il film vive e palpita della magnifica Renée Zellweger in un ruolo che le è vicino interiormente e che incrocia indissolubilmente il suo destino umano con quello della diva.