Vengono fuori gli animali più strani la notte: puttane, sfruttatori, mendicanti, drogati, spacciatori di droga, ladri scippatori. Un giorno o l’altro verrà un altro diluvio universale e ripulirà le strade per sempre.
Travis Bickle in Taxi driver
Spazziamo subito ogni dubbio: Joker non è un cinecomic. È qualcos’altro – film d’autore? Ma cosa significa oggi? – spacciato per tale. Sebbene l’Arthur Fleck, protagonista della pellicola di Todd Phillips, abiti e agisca a Gotham City – che, però, non è né la Gotham dei fumetti né quella barocca dei film di Burton o quella iperrealista di Nolan – e incontri perfino un Bruce Wayne – identità segreta di Batman – bambino, la parabola discendente dello sfortunato borderline che vorrebbe diventare un comico cabarettista, stand up commedian, non è un cinecomic e potrebbe essere la storia di un qualsiasi altro folle disturbato che non sia necessariamente l’arci-nemico di Batman.
L’operazione è stata decisa a tavolino, come si intuisce anche dalle parole dello stesso Phillips che ha affermato: «Pensiamo a questo progetto come a una maniera per intrufolare nello studio system un vero film mascherato da cinecomic». Che questa distinzione tra vero film e cinecomic presupponga una visione snobistica del regista nei confronti del fumetto trasposto in forma filmica sembra chiaro, cosa che farà certamente storcere il naso a tutti coloro che affermano – giustamente, aggiungiamo – la legittima dignità della nona arte nel pantheon delle espressioni più alte della creatività. Non è un caso, infatti, che il cinema degli ultimi due decenni abbia saccheggiato graphic novel a più non posso in cerca di idee, al di là delle trasposizioni ufficiali Marvel e DC. Tuttavia, coloro che vedono nel trionfo di Joker a Venezia un riconoscimento e uno sdoganamento dei cinecomic da parte del mondo serio del cinema sbagliano di grosso. Ma è un discorso che non possiamo approfondire qui. In ogni caso, ciò non impedisce di valutare Joker per quello che è, cioè un bellissimo film su uno studio sociale, psicologico e antropologico riguardo una personalità disturbata che discende negli inferi della psiche e ne fuoriesce come un vero e proprio psicopatico, violento e omicida.
Il nostro Arthur, interpretato da un inarrivabile Joaquin Phoenix, è un disadattato che vive solo con la madre e che si arrabatta a fare il clown di strada nell’attesa di sfondare come comico cabarettista. Soffre di un singolare disturbo della personalità: non riesce a trattenere un’inquietante e soffocante risata ogni qualvolta si trovi in situazioni di disagio, nervosismo o stress in generale, cosa che ovviamente lo fa ridere nei momenti meno opportuni. È chiaro come questo porti il povero Arthur a essere escluso e addirittura a inimicarsi il prossimo involontariamente. Anche quando mostra un bigliettino in cui viene descritto il suo disturbo e quindi giustificato il suo comportamento, non trova comprensione ed empatia ma solo allontanamento, indifferenza e paura.
Inoltre, la Gotham del 1981 – la collocazione temporale precisa la si intuisce da un cinema in cui proiettano Blow out di Brian De Palma – nella quale il protagonista si muove è terribilmente simile, anche nei colori, a quella melma di sporcizia e depravazione morale che era la New York anni Settanta in cui si muoveva il Travis Bickle – Robert De Niro – di Taxi driver (1976). E, infatti, Arthur condivide molto dell’alienazione che caratterizzava il protagonista del capolavoro di Scorsese. Non è un caso che il film si apra con il vecchio logo della Warner di quegli anni e che i titoli di testa siano scritti con un font che riecheggia l’atmosfera di tante pellicole della New Hollywood di quel periodo. Anche la fotografia, di Lawrence Sher, riproduce esattamente quella particolare gamma cromatica e quella pasta della pellicola che caratterizzava i film del periodo. Le musiche della compositrice islandese Hildur Guðnadóttir, poi, evocano efficacemente la cupezza e il senso di straniamento che provocavano le note di Bernard Hermann nel film di Scorsese del 1976, senza peraltro imitarlo pedissequamente. Il senso dell’operazione filmica di Phillips è dichiarato: non è tanto l’inserirsi nell’universo fumettistico della DC Comics, quanto quello di dialogare ad armi pari con tutto l’immaginario cinematografico della New Hollywood degli anni Settanta, Scorsese in primis. Tra l’altro, gli riesce molto bene.
Non dimentichiamo anche il riferimento alla famigerata scalinata de L’esorcista, maledettamente simile a quella che percorre ogni giorno Fleck per tornare a casa. Non meravigli il fatto che Phllips sia il creatore della trilogia Una notte da leoni. Una certa cattiveria e cinismo facevano già parte del bagaglio umano dei demenziali protagonisti della trilogia del dopo-sbronza. Infine, l’amore e l’ammirazione di Phillips per quell’irripetibile periodo del cinema americano che promanano in ogni momento del film hanno contribuito non poco.
La sede dell’agenzia dei clown in cui lavora Arthur potrebbe essere benissimo la stazione dei taxi dove era impiegato Travis Bickle e le fattezze dell’amico che gli regala una pistola non a caso ricordano terribilmente quelle di Peter Boyle – indimenticabile creatura in Frankenstein junior – che nel film di Scorsese interpretava Wizard, il collega che cercava di consigliare l’emarginato tassista. Ma nel corso di Joker ci sono altri notevoli riferimenti a scene precise di Taxi driver che non possiamo svelare per ovvie ragioni.
L’esplorazione dell’immaginario scorsesiano non finisce qui visto che troviamo lo stesso De Niro in un ruolo specularmente opposto a quello che interpretava in Re per una notte (King of comedy). Nel film di Scorsese del 1983, Bob De Niro era Rupert Pupkin, uno sfortunato aspirante comico che mitizzava il conduttore di uno show televisivo, interpretato all’epoca da Jerry Lewis, che arrivava a rapirlo pur di apparire nella sua trasmissione. Come in un contrappasso filmico, questa volta l’attore italoamericano interpreta il conduttore dello show, Murray Franklin, una sorta di cinico David Letterman che non esita a utilizzare la sfortuna o la mancanza di talento altrui per strappare una risata al pubblico.
Ecco che il nostro Arthur diventa un riuscito crogiuolo in cui si fondono l’alienazione del Travis Bickle di Taxi driver con le frustrazioni del Rupert Pupkin di King of comedy. Ma non è solo questo ovviamente che lo porterà al limite. Il disadattamento di Fleck trova terreno fertile in una società che non solo non lo aiuta ma si prende gioco di lui e lo bullizza violentemente fino a farlo esplodere. Complice anche la scoperta di un passato traumatico che lo collega all’universo di Batman in una maniera che non possiamo dire ma che potrebbe sconvolgere il futuro del crociato incappucciato che verrà. In questo va riconosciuto che c’è stato un tentativo da parte di Phillips di riconnettersi alla matrice narrativa da cui proviene il Joker. Non solo: il personaggio del comico fallito che, dopo una brutta giornata impazzisce, come concetto viene preso pari pari da quel capolavoro di The killing joke, geniale graphic novel di Alan Moore del 1988 in cui si dava per la prima volta un passato alla nemesi di Batman.
Inoltre, lo stile nichilista, paradossale e straniante con cui Arthur Fleck si presenta al pubblico di un locale per cabarettisti, non può non ricordare l’anarchica dirompenza con cui il comico americano Andy Kaufman – altra icona degli anni Settanta e Ottanta, interpretato poi da Jim Carrey nel bellissimo Man on the moon (1999) – si presentava in tv. Gag surreali oppure cattive che mettevano in crisi il gusto piccolo-borghese dell’americano medio, il quale spesso non ne afferrava il senso. Anche la figura di Kaufman nascondeva una tragicità che non è assolutamente estranea alla vicenda di Arthur Fleck.
Veniamo ora al mattatore del film: Joaquin Phoenix. Lo studio attoriale che ha fatto del personaggio è assolutamente incredibile. La sofferenza interiore di Arthur è resa tramite una recitazione molto fisica e sofferta, in cui la magrezza estrema e le torsioni al limite dell’umano a cui l’attore sottopone il proprio fisico diventano metafore delle storture psichiche che si porta dietro. La risata nervosa, soffocata e triste diviene lo sfogo malato di una sofferenza che non riesce a trovare altro modo di esprimersi. È così, infatti, che lo spettatore viene portato a provare comprensione ed empatia nei confronti del personaggio. Il percorso di Arthur verso la follia omicida viene quindi ampiamente giustificato dalla sua sindrome e da tutto ciò che di brutto gli succede nonché da ciò che scopre riguardo il proprio passato. In questo, il personaggio differisce molto dalla pazzia senza motivo che ha spesso caratterizzato il Joker nelle precedenti incarnazioni cinematografiche, soprattutto in quella di Heath Ledger. Infatti, nel Cavaliere oscuro (2008) il criminale dalla faccia da clown scherzava sulle sue origini e ogni volta ne dava una versione diversa, a seconda del suo interlocutore. A sottolineare dunque l’agghiacciante incomprensibilità delle sue motivazioni. In questo caso, invece, siamo testimoni delle cause che hanno portato Arthur a diventare il Joker e così forse si perde un po’ del fascino del personaggio che era puro Caos senza ragione, ovvero solo qualcuno che si divertiva a veder bruciare il mondo.
Non possiamo infine tralasciare il clown, nell’accezione di maschera tragica che ride esteriormente ma dentro è devastato. Il rapporto del Joker fumettistico con questa maschera passa anche attraverso l’archetipo del Trickster, ovvero il cosiddetto Briccone divino che tira scherzi malvagi ma è anche espressione di un sacro impeto di trasformazione dell’individuo. Non dimentichiamo inoltre che Bob Kane, il creatore delle strisce di Batman, trasse ispirazione per il suo folle criminale dal tragico e inquietante protagonista del film muto di Paul Leni L’uomo che ride (1928) tratto dall’omonimo romanzo di Victor Hugo. Tutti questi elementi trovano una felice sintesi nella risata sofferta e inquietante di Joaquin Phoenix che ne offre una declinazione tragica così convincente da farci pensare perfino a Calvero, il clown in declino interpretato da Chaplin nel suo capolavoro Luci della ribalta. Ecco, però, che il triste pagliaccio, simbolo di emozioni represse che non trovano una sana canalizzazione, diventa una figura sinistra e persecutrice proprio come Pennywise, il terrificante clown di It creato da Stephen King, di cui, guarda caso, è uscito da poco il secondo capitolo nelle sale.
Il clown diviene una maschera capace di sussumere su di sé le frustrazioni e i dolori di un grossa fetta di società che vive ai margini e che, nella figura del pagliaccio, vede un’occasione di riscatto nei confronti delle classi agiate. È in questa maniera che il film di Phillips si riconnette efficacemente alle inquietudini del mondo attuale. Diventando dunque un simbolo di riscatto per i diseredati, Joker diviene suo malgrado la miccia per lo scatenamento di tumulti che ricordano non poco il movimento Anonymous, ovvero i gruppi di protesta che indossano le maschere di Guy Fawkes prese dal film V per Vendetta. È chiaro allora perché negli USA, dove le stragi nelle scuole e nei cinema sono all’ordine del giorno, stiano tristemente prendendo misure di sicurezza nelle sale dove verrà proiettata la pellicola. Questo discorso richiederebbe però una trattazione a parte – riguardante anche la facile circolazione delle armi negli Stati Uniti – che, magari, affronteremo in seguito.
La discesa di Arthur Fleck negli abissi della follia, complice la magistrale interpretazione di Phoenix, diventerà certamente un’icona della storia del cinema negli anni a venire e non sarà facile dimenticare i disagi, le angosce e le umiliazioni sofferte dal suo personaggio. Questo perché le sue sofferenze potrebbero tranquillamente essere le nostre, suggerendo in modo inquietante che non è poi così enorme il passo che separa noi tutti dalla follia. Delle cattive giornate come quelle vissute dal nostro Arthur potrebbero trasformare chiunque in un Joker. Siamo tutti dei clown, come recita uno degli slogan di un cartello che si vede nel film, ovvero siamo tutti delle maschere, costretti dalla società ad assumere abiti di efficientismo, gentilezza affettata e ipocrisia, ma pronti a esplodere nel momento in cui quella sofferenza e quei turbamenti repressi non trovano uno sfogo legittimo. In questo risiede il senso ultimo, vero, quindi per questo ancor più inquietante, della bellissima pellicola di Phillips.