Jean-Eugène-Auguste Atget, spesso chiamato brevemente Eugène Atget, divenne l’emblema della “fotografia pura” – che si opponeva al pittorialismo – quando nell’ambito delle avanguardie si stavano cercando nuove ipotesi linguistiche, soprattutto nel campo della fotografia. Tuttavia, raggiunse il successo solo dopo la morte, collocandosi ai vertici della storia della fotografia mondiale.
Non si conosce nel dettaglio la sua vita, soprattutto il periodo dell’infanzia e della prima giovinezza ancora oggi piuttosto oscuri. Tra i pochi dati certi, però, sappiamo che nacque il 12 febbraio del 1857 a Libourne, vicino Bordeaux, che il padre si chiamava Jean-Eugène e che rimase orfano in giovane età. Affidato alle cure di uno zio paterno, Atget si sarebbe poi trasferito a Parigi dove fu sistemato in un collegio, probabilmente un orfanotrofio. Da questo momento, le notizie su di lui diventano vaghe, ma nel 1879, all’età di 22 anni, entrò a far parte del conservatorio nazionale d’arte drammatica di Parigi e vi rimase fino al 1881.
Per alcuni anni, cercò di portare avanti la sua vita da giovane attore, purtroppo senza riscuotere successo. Nel 1886 incontrò Valentine Compagnon, in arte Delafosse, attrice di grande valore – a differenza di Atget – che divenne la compagna della sua vita; sarebbe rimasta al fianco del fotografo sino al 1926, anno della sua morte. Dopo il teatro, Eugène decise di dedicarsi alla pittura, sperando in un mestiere nuovo che potesse aiutarlo economicamente ad andare avanti, ma che, anche questa volta, non gli portò alcun successo, sino a quando non decise – come è accaduto per tantissimi pittori mancati – di passare alla fotografia.
Date le costanti difficoltà economiche, l’unica possibilità era quella di acquistare un apparecchio ormai sorpassato, la sua scelta infatti ricadde su una camera Chambord 18×24 cm in legno, decisamente superata da formati più piccoli e decisamente più maneggevoli e versatili. Ciò nonostante, risultò comunque congeniale per Atget l’utilizzo di questo apparecchio, perfetto per il suo – come scrive Italo Zannier in L’occhio della fotografia – temperamento da “artigiano”, che aveva scelto la fotografia senza alcuna velleità artistica, ma soltanto come mezzo per guadagnarsi da vivere.
I suoi primi lavori furono soggetti per artisti, ma anche vedute della città che cercò di vendere ai pittori. Eugène Atget con l’ingombrante e pesante attrezzatura – scrive ancora Zannier – che oltre all’apparecchio comprendeva un treppiede pure in legno, un paio di obiettivi rettolineari, che spesso decentrava eccessivamente, “vignettando” gli angoli superiori dell’immagine, e una cassetta contenente dodici lastre, che da sola pesava circa quindici chilogrammi, divenne ben presto una figura caratteristica della Parigi bohémienne e della banlieue, dove egli era di solito sostare lungamente, per registrare con sistematicità soprattutto gli aspetti minori della città, spesso di un degrado tale da dover essere demoliti, simboli comunque di un’architettura e di un ambiente che di lì a poco sarebbe rimasto documentato soltanto dalle sue lastre.
Il fotografo francese immortalò per sempre le persone e gli ultimi mestieri di strada, catalogandoli con grande perseveranza, spinto dalla convinzione che presto tutto questo non sarebbe più esistito. Il suo scopo non fu mai legato a motivi sociologici o a compiacenze folkloristiche, così come, nei suoi scatti, raramente fu presente l’opera monumentale. Le sue immagini furono acquistate da tantissimi artisti, tra cui Picasso, Utrillo, Derain, Braque, Mariano Fortuny j. e altri. Atget era un uomo di grandissima modestia e mai gli sfiorò l’idea di aver prodotto istantanee che, esse stesse, potessero rivelarsi vere e proprie opere d’arte, nonostante avesse un’idea molto chiara della fotografia: doveva essere pura, diretta, per nessuna ragione manipolata, come invece facevano i pittorialisti che a lui non piacevano.
Atget, come racconta ancora Zannier, fotografò tutto ciò che trovava interessante, indipendentemente dalla committenza, in modo quasi ossessivo, se si tiene conto delle difficoltà tecniche di ogni singola ripresa, come se volesse “guardare” sempre attraverso il vetro smerigliato della sua “camera” e immaginare con questo filtro un’altra realtà. Lui stesso disse che la fotografia è sintesi e l’artista è tale se coglie la vera essenza del soggetto. Non vi sono limitazioni e tutto si deve fotografare, perché l’arte è ovunque. Infatti alberi, radici, fiori, statue, fontane – elementi osservati come personaggi – Atget li riscattava con la gratificazione della fotografica, trasformandoli in oggetti estetici.
Soltanto negli ultimi anni della sua vita il suo grande talento fu scoperto: Man Ray, infatti, insieme alla sua giovane allieva american Berenice Abbott, apprezzò la particolarità dell’arte di Eugène, diventandogli amico. Le “vetrine” fotografate da Atget, così piene di riflessi che creavano inquietanti sovrimpressioni di significati, riuscivano a far trasparire atmosfere fantastiche perfette per le nuove istanze che i dadaisti e i surrealisti stavano proponendo.
Purtroppo, il 4 agosto del 1927, un anno dopo la morte della moglie Valentine Compagnon, Eugène Atget si spense, mettendosi alle spalle un periodo terribile in cui aveva smesso di fare fotografia per lasciarsi completamente andare. Nello stesso anno, Berenice Abbott acquistò dal padrone di casa di Atget duemila lastre e alcune stampe positive che portò con sé a New York, dove realizzò una mostra nel 1930 alla Weyne Gallery che rivelò anche in America – dopo la rassegna alla Film und Foto di Stoccarda del 1929 – il grandissimo talento nonché la lucidità visiva di Atget.
In ogni arte – ha scritto Raymond Lécuyer – gli innovatori più audaci provano il bisogno di scoprire dei precursori, di invocare un antecedente, insomma di trovare garanzie nel passato. La scuola della fotografia pura ha obbedito a sua volta a questa legge istintiva ed è all’esempio di Atget che essa s’è appellata.