Un amico una volta, a proposito di Calvino, mi ha detto: «Si parla di lui solo quando non si sa bene cosa dire». La trovo una considerazione molto vera, in fondo. Sarà che Italo Calvino ha scritto di tutto e in vari generi, toni e registri, sarà che è uno dei più famosi – se non il più famoso – scrittori del secolo scorso, insomma tirare fuori il suo nome a destra e a manca fa fare sempre bella figura. O quasi.
Non credo sia utile in questa sede un recap della vita e dei testi dell’autore; ciò che mi piacerebbe fare è parlare in breve di una delle sue innumerevoli opere, quella che ho amato di più e per più tempo mi è rimasta impressa. Si tratta de Le città invisibili, testo pubblicato per la prima volta nel 1972, frutto di un periodo sperimentale nato grazie all’incontro di Italo Calvino con il gruppo di scrittori francesi Oulipo, nonché alla conoscenza di Jorge Luis Borges. L’influenza dell’autore argentino, il suo rigore, la vena surrealista, lo stile arcanamente evocativo spingeranno Calvino ad allontanarsi dal neorealismo dei primi romanzi per sperimentare altri modi di fare letteratura, in questo caso, letteratura come gioco. A questo periodo infatti risalgono anche Il Castello dei destini incrociati, Se una notte d’inverno un viaggiatore e Palomar.
Le città invisibili dunque: nove capitoli, aperti e chiusi con un dialogo tra Marco Polo e l’imperatore del Regno dei Tartari Kublai Khan, il quale domanda all’esploratore di raccontargli e descrivergli le città del suo sterminato regno. Cinquantacinque sono in totale quelle scelte da Marco Polo, ciascuna delle quali porta il nome classico di una donna, raggruppate poi nelle seguenti undici sezioni: Le città e la memoria, Le città e il desiderio, Le città e i segni, Le città sottili, Le città e gli scambi, Le città e gli occhi, Le città e il nome, Le città e i morti, Le città e il cielo, Le città continue, Le città nascoste.
Queste sezioni si succedono di continuo secondo un procedimento di alternanza scalare. La successione delle città e delle sezioni non implica infatti una sequenzialità o una gerarchia, ma, come spiega lo stesso Calvino in Lezioni americane, forma una rete entro la quale si possono tracciare molteplici percorsi e ricavare conclusioni plurime e ramificate.
Alla base dell’idea per la costruzione di un testo simile c’è la riflessione dello scrittore sul ruolo delle megalopoli moderne – in quegli anni sicuramente New York, Londra, Parigi, Tokyo (che già nel 1964 toccò gli undici milioni di abitanti), Shangai, Bombay – e su come esse, nella loro morfologia, toponomastica ed evoluzione in termini di popolazione possano influenzare la vita dell’uomo.
Tornando al libro, Calvino, nella voce di Marco Polo, non si limita a descrivere le città del regno, ma abbina a ogni luogo un’emozione, un colore, una persona, un ricordo, persino un animale (come nel caso della città di Clarice, sontuosa come una farfalla) e, particolare ancora più curioso e interessante, il metodo di lettura varia da lettore a lettore: si può scegliere di leggere in ordine, per blocchi, riunendo le sezioni, alla rinfusa, al contrario dall’ultima pagina alla prima, in senso alfabetico. Letteratura come gioco abbiamo detto, ma che Calvino usava chiamare stile combinatorio. In questo modo il testo non esaurisce la sua forza alla prima lettura: si può leggere più e più volte in modi diversi e ogni volta svelerà particolari e sensazioni nuove.
La nota onirica è palese: le descrizioni di Marco Polo delle città sembrano frutto di sogni e la capacità dell’autore di immaginare mondi che non esistono non smette mai di sorprendere. Sì, perché se è vero che qualcuno potrebbe riconoscere in alcune città dei luoghi realmente esistenti, la maggior parte di essi è inventata.
Le città come i sogni sono costruite di desideri e di paure, anche se il filo del loro discorso è segreto, le loro regole assurde, le prospettive ingannevoli, e ogni cosa ne nasconde un’altra, spiega Marco Polo al Gran Khan.
Importantissimo è anche il tema del linguaggio: nei primi capitoli Marco Polo mostra tutta la propria difficoltà nel parlare la lingua di Kublai Khan ed è costretto a esprimersi a gesti e versi. È solo con il passare del tempo, e delle descrizioni, dell’avanzare del sogno, che la lingua del navigatore veneziano diventa più fluida, ma a quel punto si renderà conto di aver bisogno per esprimersi di un linguaggio intermediato da oggetti che, emblematicamente, racchiudono nel proprio essere il significato che Marco Polo intende comunicare al sovrano.
Le descrizioni che mi sono piaciute di più: la città di Zenobia costruita su palafitte, al termine del cui racconto Marco Polo dice che è inutile stabilire se Zenobia sia da classificare tra le città felici o tra quelle infelici. Non è in queste due specie che ha senso dividere le città, ma in altre due: quelle che continuano attraverso gli anni e le mutazioni a dare la loro forma ai desideri e quelle in cui i desideri c riescono a cancellare la città o ne sono cancellati; il racconto della città di Zobeide, come una luna e una donna nuda dai lunghi capelli; la città del desiderio di Ipazia.
Ho letto Le città invisibili solo una volta. In occasione del centesimo anniversario dalla nascita di Calvino mi sembra una buona idea farlo ancora, pescando un metodo di lettura stavolta più originale.