Il loro Paese d’origine non offre spunti al domani e il futuro, troppo spesso, è una chimera che non si sogna ormai più. Sono giovani, alcuni giovanissimi, travalicano i confini d’Europa pronti ad accontentarsi dei lavori più umili, di quelle occupazioni che i locali quasi disdegnano, così abituati a chi serve alle loro tavole con gli accenti sbagliati. L’incarnato è dello stesso colore, forse appena più vivace, la sorte a cui vanno incontro, al contrario, li rende improvvisamente indesiderati. Sono gli italiani detenuti in UK che approdano dallo scorso 1 gennaio nel Regno di Sua Maestà, la terra che ha scelto la Brexit, l’impero che vuole tornare a sentirsi grande. Da solo.
Hanno fatto scalpore le dichiarazioni della giovane Marta Lomartire – rilasciate al quotidiano La Repubblica – in cui la 24enne pugliese raccontava di essere stata trattenuta per più di dodici ore in un centro di detenzione dove era stata trasferita successivamente al suo atterraggio all’aeroporto londinese di Heathrow, il principale hub aeroportuale della capitale britannica. La ragazza era giunta a Londra per lavorare come collaboratrice domestica presso l’abitazione del cugino, medico, residente oltremanica da oltre quindici anni. La raccomandazione, tuttavia, non le era bastata: le nuove normative in materia d’immigrazione sono chiare e senza un contratto di circa 26mila sterline già in tasca, l’accesso in UK non è consentito.
L’ex terra promessa – meta di migliaia di giovani provenienti da tutto il mondo ogni anno – con l’avvento del 2021 si è trasformata, di colpo, in un nuovo checkpoint di frontiera, un muro alzato idealmente oltre le scogliere di Dover, un Mediterraneo che non miete vittime (colpevoli soltanto della propria disperazione) ma, con lo stesso criterio, seleziona i profili adatti a valicare i cancelli e detiene chi al sistema non è più gradito.
«Non avevo fatto nulla di male», le parole di Marta Lomartire, privata anche del cellulare e degli effetti personali. «Credevo di avere la documentazione giusta. E invece: filo spinato sulle mura intorno, sbarre alle finestre, cancelli enormi blindati. È stato uno shock. Una volta entrata, sono scoppiata in un pianto terribile, perché per me era inconcepibile». Stando alla rivista Politico, sarebbero oltre trenta i cittadini europei ad aver subito un simile trattamento, una scena che – a immaginarla – non può che fare impressione e che tanto somiglia ai racconti che, troppo spesso, l’Unione Europea ignora e di cui ora, invece, ha già chiesto merito a Downing Street tramite l’intervento addirittura della Presidentessa Ursula von der Leyen.
Il prestigioso giornale The Guardian, nei giorni scorsi, ha anche parlato di alcuni respingimenti avvenuti in presenza di requisiti di accesso formalmente validi. Gli intervistati dai colleghi inglesi avevano raccontato di essere stati trasferiti senza un’apparente valida motivazione allo Yarl’s Wood Immigration Removal Centre, anch’essi privati della possibilità di adoperare il telefonino, anch’essi catapultati nel dramma troppe volte dimenticato delle frontiere libiche, del filo spinato tra Spagna e Marocco, delle code bosniache sotto la neve, delle isole greche, delle armi puntate oltre i confini della Turchia.
Il Sud del mondo, d’improvviso, ha preso la forma dello Stivale, della penisola iberica, persino della grande Germania, si è specchiato nel dramma innescato dalla Brexit, salutata con gioia dalle stesse forze politiche che a tratti hanno fatto finta di non vedere quanto sta capitando ai connazionali che millantano di voler difendere, altrimenti hanno condannato per il trattamento poco civile. Un conflitto tra rinnegarsi e cogliere al balzo l’ennesima occasione per fare rumore che ha rivelato – qualora ce ne fosse stato bisogno – la natura meramente elettorale e opportunistica della loro propaganda a sostegno del Premier Johnson.
La UE, dimostratasi sorda – per non dire egoista e fallimentare – alle richieste d’aiuto degli Stati lasciati soli a fronteggiare il problema, su tutte proprio l’Italia, nelle ultime ore ha tuonato nei riguardi di Londra chiedendo garanzie e rispetto per i cittadini continentali, loro sì nati dalla parte giusta del mondo e, dunque, meritevoli di tanto sbattersi. Ciò che viene oltre il mare, al contrario – come accade anche in queste ore sul suolo africano verso la Spagna – può continuare a scrivere le sue drammatiche pagine.
Non fosse che l’intera questione riguardi i diritti di vite umane, ci sarebbe da chiedersi il perché di tanta disparità, da qualunque lato si guardi la cosa. Perché lamentarsi di regole imposte da uno Stato sovrano, ormai anche sciolto dai richiami comunitari? Perché scandalizzarsi di fronte a tali sopraffazioni quando, addirittura, chi subisce ora l’onta della clandestinità paga regolarmente milizie mafiose per incarcerare e torturare i migranti affinché non affrontino il mare e, dunque, la stessa speranza che i nostri connazionali affidano alle ali degli aeroplani? Perché solo di fronte ai diritti di figli già privilegiati di questa Terra l’Europa si è mossa compatta? Perché?
Se qualcuno pensava alla Brexit come a uno sfizio dei conservatori, un modo quasi goliardico di sventolare la bandiera bianca e rossa nei cieli d’Inghilterra per rivendicare l’identità dei sudditi di Elisabetta II, quel qualcuno non deve aver mai guardato negli occhi di chi in un biglietto per Londra vedeva accendersi la speranza di una vita normale, quella che i propri natali gli avevano forse promesso ma mai garantito. Guardare in quegli occhi, però, avrebbe significato incrociare lo sguardo di tutti quelli che lasciano casa, che partono, che hanno fame. Avrebbe significato rischiare di interrogarsi sul proprio essere uomini e scoprire di averne dimenticato la natura.
Che si tratti di Londra, di Tripoli, Ceuta o Ventimiglia, la storia non cambia. C’è sempre un sud più a sud e c’è sempre chi chiude le porte. C’è una scritta, a Berlino, città che di mura e divisioni ha riempito la pagina più celebre della storia: young minds build bridges. Chissà, qualche volta dalla storia anche s’impara.