Da una parte la diffusione a macchia d’olio della pandemia, dall’altra le notizie confortanti provenienti dalla Corea e dalla Cina impegnate a contrastare un possibile contagio di ritorno attraverso misure stringenti, molto rigorose, a evitare l’espandersi del nemico invisibile. Il nostro impegno, dunque, si fa sempre più pressante per avere notizie e testimonianze dei connazionali residenti all’estero che certamente, oltre alla comprensibile preoccupazione di affrontare una situazione contingente non facile, guardano all’Italia, a quanto accade nel Paese e alle loro famiglie. Questa volta, siamo stati in Inghilterra e Spagna, con Francesco Morrone, Senior Manager a Londra, Federica Ciardi, infermiera a Cambridge, e l’avvocato Mauro d’Aquino a Barcellona.
Francesco Morrone, Londra (Inghilterra)
23 marzo – Mentre scrivo, i pensieri che affollano la mia mente sono tanti. Sono di ritorno da casa di mia cugina e ad accompagnarmi è una strana sensazione. Sono andato da lei perché dovevo ritirare dei testi che sta dando via sperando potessero tornare utili alle mie bambine. Il nostro, però, è stato un incontro inedito. Anzi, un non incontro. Ho prelevato le buste con i libri sull’uscio del suo appartamento, lì dove le aveva lasciate poc’anzi. Non abbiamo potuto salutarci, nessun abbraccio o dimostrazione d’affetto. Io sulle scale, lei sulla porta di casa, all’aperto. Abbiamo fatto appena due chiacchiere, ma il fresco della sera ci ha tenuto insieme per poco.
La situazione, qui, è abbastanza spettrale. Sono le 21:30 circa, le auto in giro davvero poche e così anche durante il giorno, i negozi chiusi, soltanto le farmacie, i supermarket e gli off-license si trovano aperti. Per il resto, nulla, non c’è motivo per uscire. Io l’ho fatto per necessità, altrimenti avrei evitato. D’altra parte, c’è quest’urgenza di evitare il più possibile il social contact che viene fuori con maggiore insistenza anche dalla voce del governo che ha fatto un grande passo indietro. Dall’immunizzazione di gregge e il perderete tanti vostri cari, si è passati ora all’abbassiamo il picco, dilazioniamolo, salviamo l’NHS (il Servizio Sanitario Nazionale britannico), che è un po’ il filone che si sta seguendo dappertutto. Economia azzerata e focus sulla possibilità di contagio. Ciò nonostante, c’è comunque del malcontento, tutti pensano che il governo abbia agito poco o male, in ritardo, non è un bel sentore.
Stasera Boris Johnson ha tenuto un discorso che non ho avuto modo di seguire in diretta, ma dai primi commenti alla radio pare sia stato ribadito il bisogno di limitare gli spostamenti e gli incontri tra le persone, che, di fatto, sono praticamente annullati con la possibilità di intervento da parte della polizia. In cambio, si può fare attività sportiva per un’ora al giorno o comunque una breve passeggiata all’aria aperta. Una soluzione a suo modo positiva che consente alla cittadinanza di sfogare, anche se per poco.
L’ora d’aria sta funzionando abbastanza, anche se al parco in certi momenti ci sono troppe persone. Per strada c’è molto rispetto, si cammina all’inglese, non ci si insulta, si tende a capirsi, tutti sanno che chi esce lo fa per necessità, così si cerca di essere tolleranti verso il prossimo, attenti nel cercare disperatamente di mantenere la distanza consigliata. Ci si scambia uno sguardo di comprensione senza parlare, si alza la mano e, via, ognuno per la sua strada con il conforto di non essere solo.
Stamattina sono andato a fare la spesa. Qui non è permesso l’acquisto di 1/2 prodotti simili (si legga loo paper!), alla cassa te li confiscano, non più di una confezione, ma pare stia procedendo bene. Oggi, al supermercato più grande vicino casa, c’era scarsa affluenza ma molti prodotti sugli scaffali. Le scene di carestia e guerra, abbastanza spiacevoli per l’umore, sono come un ricordo lontano, mancano solo riso e paracetamolo! C’è da dire, però, che in giro sono tuttora pochissimi coloro che indossano le mascherine, peccato. Come se indossarle fosse una resa, una perdita di dignità. Se tutti le indossassimo, il virus avrebbe i giorni contati, invece siamo ancora qua scoperti e nudi di fronte alla calamità. Una bomba biologica ci sta mettendo duramente alla prova.
Tenere intere città chiuse in casa è una sfida, certo, tutti ci chiediamo quanto durerà. Se sarà una “Pasqua prolungata”, magari coprendo l’intero mese di aprile – cosa che crediamo – o, come si spera, se la vita tornerà presto quella che era fino a qualche giorno fa. Voi, in Italia, ci siete dentro da un po’, quindi potete ben capire. Noi italiani a Londra la viviamo da fuori, ma forte tanto quanto voi sul territorio, solo senza il social impact che, all’inizio, almeno qui è stato nullo. Era solo business, come sempre, fino a quando si è potuto tirarlo avanti. Di conseguenza, molti – la mia famiglia o quella di mia cugina, ad esempio – si sono self-isolated, auto-isolati il più possibile. Intanto, io – come altri – sto lavorando da casa ma, sebbene la mole sia decisamente ridotta, non andando in ufficio ho la sensazione di non finire mai. Insomma, è una situazione nuova per tutti.
Piccola nota positiva, l’asilo sta pensando a dei momenti in cui le famiglie possono collegarsi e i bambini cantare insieme delle canzoni. E questo, da papà, mi dà un po’ di sollievo. È un bel segnale… Ce la faremo!
Federica Ciardi, Cambridge (Inghilterra)
24 marzo – Confesso che ai primi casi di coronavirus di cui i miei genitori mi aggiornavano dall’Italia, anche io facevo parte del gruppo è solo un’influenza, passerà. Oggi invece sono preoccupata.
Sono preoccupata perché sono lontana dalla mia famiglia, mio padre non sta lavorando e siccome lavora per un privato mi chiedo se i suoi diritti di lavoratore verranno comunque tutelati e garantiti. Sono preoccupata perché i dati e le notizie che arrivano dall’Italia non sono ancora incoraggianti. Sono preoccupata per i miei colleghi infermieri italiani, con cui mi confronto e mi aggiorno sempre, testimone dunque della loro straordinaria forza.
Sono preoccupata perché in Inghilterra, nonostante l’esempio della Cina e dell’Italia, le misure di sicurezza sono state prese troppo tardi. Qui del coronavirus non si è parlato fino a una settimana fa, i miei colleghi britannici non avevano idea, se non in misura minima, di cosa stesse succedendo nel resto del mondo.
Ieri ho guardato BBC News per ascoltare il discorso del Primo Ministro inglese e, prima del suo podcast, la giornalista ha fatto un veloce riassunto della situazione, con tanto di numeri dei vari Stati europei ed extraeuropei, a eccezione dell’Inghilterra. Per l’Inghilterra nessun numero. Eppure, il Prime Minister ha dichiarato lockdown.
Sono onesta, le informazioni riguardo ciò che sta accadendo in Inghilterra non sono chiare, non sono trasparenti, e questo è ciò che genera la mia preoccupazione. Da infermiera, nel momento esatto in cui ho deciso di intraprendere questa carriera ho firmato un contratto che include inevitabilmente il rischio di contrarre malattie infettive. Oggi è perché si parla di coronavirus, ma il personale sanitario rischia ogni giorno di contrarre le più disparate patologie e questo vorrei fosse ricordato sempre.
Attualmente, come operatrice sanitaria non sto vivendo ancora quello che i mie colleghi stanno affrontando in Italia. Nell’ospedale in cui lavoro abbiamo ridotto notevolmente il flusso di pazienti e svuotato interi reparti creando posti letto da destinare ai pazienti COVID-19 positivi. Per il momento tutto sembra calmo, tuttavia sono certa che a breve l’onda del coronavirus arriverà forte anche qui.
Mauro d’Aquino, Barcellona (Spagna)
25 marzo – Al momento, la situazione qui a Barcellona è alquanto surreale. Il silenzio ha, a poco a poco, sostituito il ritmo frenetico cittadino nelle strade e ora è possibile sentire rumori e suoni prima impercettibili. L’aria che si respira fuori dai balconi già sembra più leggera e meno inquinata. Viviamo le giornate ingannando il tempo cercando di essere comunque produttivi e aspettando buone notizie. La Spagna ha praticamente seguito tutti i passi dell’Italia attuando, tuttavia, con un ritardo di almeno un paio di settimane di differenza. Al giorno d’oggi tutte le attività non essenziali sono chiuse e per strada la gente esce solo per andare a fare la spesa, passeggiare con il cane o recarsi al proprio posto di lavoro in quelle imprese dove non hanno potuto implementare lo smart working. Io sono tra le persone fortunate che, per strani casi della vita, ha avuto la possibilità di restare a casa durante questo periodo anche se ho dovuto rimandare a tempo indefinito alcuni miei progetti.
Come un po’ in tutte le nazioni nelle quali si è diffusa questa pandemia, all’inizio nessuno si rendeva veramente conto della gravità della situazione e di cosa sarebbe potuto succedere nel giro di pochi giorni o addirittura, in qualche caso, nel giro di poche ore. Ho fatto ritorno a casa lo scorso 4 marzo dopo aver passato una quindicina di giorni in Australia e già quando mi trovavo ancora lì, parlando con la mia famiglia al telefono, potevo rendermi conto della loro preoccupazione per quanto stava verificandosi in Italia. Non nascondo che in principio la mia reazione è stata come quella di molte altre persone e ho reagito pensando che magari si stesse esagerando rispetto ai primi casi di Coronavirus o come lo chiamano adesso COVID-19. È veramente difficile comprendere realmente le situazioni quando ci sembrano così lontane.
Quando sono rientrato a Barcellona tutto era come sempre e nessuno percepiva o immaginava ciò che sarebbe successo di lì a poco. L’unico grande evento annullato fino a quel momento era stato il Mobile World Congress ma molti sospettavano che ci fossero altri motivi alla base della decisione e non solo il pericolo rappresentato dal virus. La mia ultima vera uscita da casa, già con qualche riserva a riguardo, è stata il 7 marzo quando con degli amici siamo andati a un festival di musica all’aperto. Le uniche precauzioni predisposte per l’evento consistevano nel mettere a disposizione dei partecipanti sapone liquido a lato delle numerose fontane disponibili per lavarsi le mani, cosa alquanto rara in ambienti del genere.
In quel momento, la sola raccomandazione da parte del governo era di lavarsi spesso le mani e poco più, gli eventi programmati erano ancora disponibili. In quel frangente tutto appariva normale e la vita proseguiva come se nulla stesse succedendo nel resto del mondo. Dal giorno successivo in poi è stato un crescendo di notizie e progressivo aumento del panico generale fino alle ultime dure misure di controllo messe in atto quando però, ormai, era già difficile frenare l’espandersi inarrestabile del virus. Allora, la mia compagna si trovava ancora in Australia e con il passare del tempo la preoccupazione che non potesse più fare rientro in Spagna aumentava sempre di più, tanto da spingerci ad anticipare il suo volo di una settimana, giusto poco prima che il governo chiudesse le frontiere.
Un’esperienza che mi ha molto colpito è stata quella vissuta quando sono andato al supermercato lunedì 9. Sembrava di essere in un’altra città e non nella Barcellona di sempre. La gente correva frenetica con i carrelli della spesa cercando di comprare quanto più possibile come stesse preparandosi per una guerra. Devo ammettere che in quel momento ho avuto paura. In fondo, anche la paura si “contagia” e, quando intorno tutti sono preoccupati, questa percezione si ripercuote anche su di te.
Come in tutte le nazioni, anche qui due dei più grandi supermercati dove mi sono recato avevano gli scaffali completamente vuoti e mancavano molti prodotti tra cui la gettonatissima carta igienica. Pochi giorni prima, la mia compagna e io avevamo scherzato sull’assalto verificatosi in Australia per accaparrarsi gli ultimi rotoli, tanto da spingere i supermercati a limitarne l’acquisto a due confezioni per persona. Dopo questa esperienza non sono più uscito di casa anche se, tuttavia, ho potuto notare come la maggior parte delle persone ancora seguisse tranquillamente con la propria vita di sempre.
Devo dire che la comunità italiana di Barcellona è stata quella che più di altre ha cercato di allarmare il resto della popolazione sulla pericolosità della situazione, anche prima che, finalmente, il governo prendesse dei provvedimenti seri. Da allora, viviamo chiusi in casa e l’unica valvola di sfogo è l’uscita fuori al balcone quando il tempo ci sorride. La cosa sorprendente e che spero perduri anche dopo che questa emergenza sarà passata è che, mentre prima pochi si preoccupavano per gli altri e regnava in molti casi l’indifferenza, adesso sembra che si stia sviluppando un bel sentimento di solidarietà collettiva che trova espressione anche negli applausi quotidiani che ci accompagnano ogni sera dai balconi alle 20. Si cerca così di ringraziare tutte quelle persone che anche nella difficoltà di oggi continuano a lavorare e a fare di tutto affinché possiamo superare presto un periodo tanto brutto. Questa è la unica nota positiva in una situazione nella quale la preoccupazione per il futuro si avverte forte e non solo per la salute, ma anche per gli inevitabili effetti economici e sociali susseguenti. È facile notarla negli occhi della gente intervistata in TV o nelle videochiamate tra amici o nelle frasi e immagini condivise tramite i social.
La tabella dei numeri con il terribile conteggio degli infettati e, purtroppo, delle vittime è un pugno nello stomaco che si ripete ogni giorno. Mai ci saremmo aspettati di vivere una situazione del genere e l’unica cosa che personalmente posso augurarci è che questo spirito di solidarietà a cui mi riferivo prima permanga nel momento in cui la crisi verrà risolta. Facciamoci forza e aspettiamo con ansia che questa esperienza ci sembrerà presto come uno di quei tanti film di fantascienza che Hollywood ci ha abituato a vedere ma in questo caso, seppur con le terribili e gravi perdite subite, con un migliore lieto fine.