Miami, bizzarra metropoli della Florida che almeno una volta l’anno frequento per motivi familiari, è sempre ricca di eventi che rendono piacevole il soggiorno di chiunque voglia trascorrere un periodo di vacanza tra mare, visite ai musei, concerti per ogni gusto musicale e una serata dai ritmi cubani nei caratteristici locali che non può assolutamente mancare. Durante il mio ultimo soggiorno, mi è capitato di trascorrere alcune ore con amici presso la Beauty Sanctuary Miami, un’elegante beauty farm di due italiane già affermate anche in altri campi, medico e marketing, e tra un bicchiere e l’altro di spumante, rigorosamente nostrano, ho notato in bella mostra una pubblicazione molto curata del designer Luca Porcelli che ha attirato la mia attenzione.
Classe 1966, napoletano di Santa Lucia poi trasferitosi in via dei Mille e poi ancora in via Orazio e in via Aniello Falcone, Luca Porcelli è un irrequieto sin dalla nascita, un personaggio molto apprezzato a Miami ma soprattutto una bella persona carica di passione dal pensiero estremamente originale e creativo. L’ho incontrato e abbiamo piacevolmente scambiato quattro chiacchiere.
Ho seguito con particolare attenzione e talvolta sono stato costretto a prendere appunti per non farmi sfuggire nessun dettaglio del racconto della tua vita lavorativa, delle tue molteplici attività, dei successi e degli spostamenti da Napoli, dove sei nato, a Milano, in Kenya e poi ancora a Milano. Infine, l’America. Una scelta condizionata dal tipo di lavoro o un sogno che avresti realizzato comunque?
«Direi entrambi. A 21 anni sono andato via da Napoli perché mi ero accorto che pur essendo una città estremamente artistica, era molto limitata. Negli anni napoletani, ho fatto un po’ di tutto, dalla comparsa cinematografica, esperienza durante la quale ho avuto l’onore di lavorare con Fellini e Tornatore, al vetrinista, al cantante, al fotografo. Quando qualcuno mi chiedeva che mestiere facessi, però, ribatteva sempre: “Sì, vabbè, ma di lavoro vero?”. Da qui la decisione di andare a Milano a studiare moda. Il sogno americano l’ho sempre avuto. Ricordo che a 15 anni sognavo di andare a New York per riuscire a conoscere Andy Warhol e a intrufolarmi nella sua Factory. Per 20 anni, appena ho potuto, sono scappato negli States. Li ho girati da cima a fondo con delle tappe costanti, New York e Miami. Sono stato sul punto di partire definitivamente, poi per vari motivi ho sempre dovuto desistere, ma chi la dura la vince. E a 50 anni ho attraversato definitivamente l’oceano».
Apprezzato designer con un marchio che ritengo sia una scelta di campo ben precisa, arte funzionale, pezzi unici di arredamento: ci fai entrare in questo mondo così singolare?
«Ci provo, sono molto più bravo con le mani che con le parole. Il merito della definizione di arte funzionale è da attribuire al Maestro Giulio Cappellini che così ha definito i miei pezzi durante una visita allo show room in cui erano esposti. Sono pezzi unici che nascono senza un progetto, non c’è nulla di stabilito o di premeditato, non c’è ragione, solo sentimento. Tutto comincia con un pezzo di legno, di metallo o da un’idea che poi immancabilmente viene stravolta durante il percorso, quasi come se prendesse vita da sola. Durante il percorso cambiano i materiali, i colori, le forme, e quello che al principio doveva essere una sedia finisce col diventare un comodino. Da questo il principio di arte funzionale: tutti i pezzi che faccio sono funzionali, oggetti di uso comune, cose che si trovano in qualsiasi casa, ma sono anche pezzi d’arte perché unici nelle finiture dei dettagli, nei colori. Sono tutti oggetti che devono essere usati e che danno il piacere di essere visti ogni giorno come un quadro o una scultura».
Tutto è cominciato con la tua partecipazione all’Art Basel di Miami di cinque anni fa, quando per l’occasione è stato organizzato per te un evento esclusivo. Qual è stata la chiave di questo momento unico nell’ambito di un’importante fiera?
«Durante un viaggio a Miami ho avuto la fortuna di conoscere Giampiero di Persia, che all’epoca era il proprietario e direttore di Poltrona Frau Miami. Gli mostrai alcuni dei miei pezzi e mi propose l’esposizione personale durante Art Basel. In quell’anno, in città stava esplodendo il design district. Girando un po’ per quelle vie mi venne l’idea di realizzare una collezione che fosse completamente diversa da tutto ciò che offriva il mercato di Miami, una scelta estremamente azzardata ma anche estremamente stimolante. A Miami era tutto bianco, acciaio, lineare, da qui l’idea di base di una collezione colorata e barocca. Ho cominciato dalla scelta dei rivestimenti, pelle e pellicce con lavorazioni particolari e colorate, rifiniture in seta, cristalli Swarovski… Una volta avuti i materiali sott’occhio mi sono lasciato ispirare dalla loro fisicità, così in 7 mesi di lavoro sono nati i 12 pezzi della collezione Amusement+Amazement».
Spaziare, sempre in pezzi unici, da una poltrona folle – posso dirlo? – sulla quale ho avuto il privilegio di sedermi per qualche ora in una sala di attesa dove spiccava una tua pubblicazione di pregio che ha attirato la mia attenzione – motivo per cui siamo qua –, a uno svuotatasche, un portaocchiali, un vassoio: perché questa diversità di categorie di oggetti?
«Perché… non lo so nemmeno io. A volte ho fatto una cornice e poggiandola sul banco di lavoro ho pensato che potesse essere anche uno svuotatasche, perché tutti avrebbero diritto a una sedia ricoperta da 600 fiori di seta… Perché… la cosa bella è che tutto ha nessun perché».
Poco fa, hai accennato al tuo amore per la manualità, quindi fuori da qualsiasi realizzazione industriale, come un designer-artigiano. Che ne dici, è un po’ riduttivo o è un’esaltazione della creatività?
«Dipende dai punti di vista. Designer-artigiano è esattamente ciò che mi definisco. Amo la perfetta imperfezione degli oggetti fatti a mano. Dal mio punto di vista è l’assoluta esaltazione della creatività, ma altri non la vedono in questo modo. Certo che sapere che milioni di persone hanno qualcosa di mio nelle loro case mi darebbe una gioia immensa, ma alla fine non sarebbero oggetti miei. Quello che provo andando a trovare alcuni clienti che hanno dei miei pezzi in casa è un po’ come andare a trovare un figlio che non si vede da tempo. Ricordo ogni passaggio della lavorazione, ogni scelta, ogni cambiamento».
Un’ultima domanda che amo fare a tutti gli italiani che vivono fuori dal proprio Paese: avverti di essere considerato un extracomunitario o pienamente cittadino americano
«Questo è un problema che non ho mai avuto. In tutti i miei trasferimenti non mi sono mai sentito fuori posto. Non ho mai patito il trasferimento a Milano, ma ricordo che quando tornavo a Napoli tutti mi chiedevano se mi trattassero da terrone. Mi sono sentito immediatamente a casa quando ho deciso di restare a vivere in Kenya – sia Milano che il Kenya sono state decisioni prese in una settimana – e lo stesso vale per Miami. Mi sento a casa, mi sento al mio posto. A parte le questioni burocratiche, mi sento pienamente americano. Se un giorno non dovessi sentirmi più tale, nonostante l’età, andrò in altro posto».
Il nostro viaggio continua: dopo aver incontrato un ricercatore a San Francisco e un designer a Miami, la prossima settimana voleremo a Ibiza dove un giovane e apprezzato ristoratore ha aperto un locale molto particolare.